Motti, epigrafi e fantasmi

19 Febbraio 2010
1 Commento


Francesco Bertolino

Poco tempo fa, dai muri di un edificio della miniera carbonifera di Serbariu, è spuntata, come un fantasma, una frase che il Duce pronunciò in occasione della sua “storica” visita a Carbonia.
Ecco l’alato pensiero: «Coloro che io preferisco sono quelli che lavorano duro, secco, sodo in obbedienza e possibilmente in silenzio». Esposizione rapida ma fedele dell’idea di lavoro e di welfare secondo il Genio della Stirpe.
Il “25 luglio” i minatori di Carbonia, esacerbati da anni di fame, di miseria, di offese, incarogniti dallo strazio di figli dispersi, scagliarono sull’infame epigrafe bestemmie, sputi, pietre e picconate.
Poco dopo, finita la guerra in Sardegna, l’attività della miniera riprese e della scritta, nel frattempo ricoperta da pudica e prudente vernice, più nulla si seppe.
La recente e casuale riscoperta dell’epigrafe ha attivato il partito dei nostalgici e dei “teorici del corretto restauro”. Se l’epigrafe è un documento della storia, cosí ragionano, perché la si deve occultare? Perché si deve censurare la Carbonia littoria? Non sarà il caso di smetterla con la lagna dell’antifascismo?
L’argomento è debole. Piú persuasivo è il sindaco di Carbonia quando sostiene che se è vero che è stata la storia a creare l’epigrafe, è sempre stata la storia che l’ha rimossa. Ma poi non è assurdo e crudele infliggere ai nipoti ciò che i nonni sputarono?
A parte ciò, vi è un irrisolto problema di coerenza che i citati teorici devono chiarire. Se infatti si vuole restaurare la cartolina della Carbonia fascista, coerenza vuole che le piazze Manno, Rinascita, Repubblica, 1° Maggio, Matteotti, etc., tornino ad essere piazza Littorio, Impero, Vinceremo! etc. Occorre il ripristino del palazzo del Fascio e dei lupanari: dopo tutto in Parlamento non vi sono iniziative di riapertura avanzate da Lega, AN e FI?
Ma occorre anche che a Carbonia ritorni il confino di polizia per gli omosessuali; sontuosa villeggiatura per culattoni, secondo lo stile del Genio della Stirpe II° e di un noto ministro repubblichino. Ed infine che l’ex caffè Pero, l’attuale caffè Imp…pero [sic!], ritorni, emendato dai pudibondi puntini, ai fasti dell’antico caffè Impero.
Ogni tanto, da screpolati muri di fatiscenti edifici, riappaiono passate testimonianze di dismesse arti e di dimenticati mestieri. Con tenera e sincera curiosità leggiamo: «Articoli coloniali», «Reale offelleria», «Chinino di Stato», «Locanda Italia», «Opificio di alcoli e spiriti»,… segni di vita operosa e di antichi sapori. Affidate alle cure di provetti artigiani, facciate ed antiche insegne sono recuperate a nuove attività ed offerte al piacere di tutti.
L’attuale tendenza urbanistica non limita le sue attenzioni alle insegne. Essa si estende a tutto ciò che fu del ventennio: asce, scudi, fiamme, elmi, pugnali, aquile, fasci littori, spade, are, labari, lapidi, catafalchi, urne, ossari, motti. Pallide ma fedeli tracce della granitico affetto delle camicie nere per il Duce, per la sua opera, per il suo magistero.
Dal ’45 ad oggi il giudizio prevalente che ha accompagnato le epigrafi fasciste è stato quello del ridicolo straripante. Il che ha relegato in secondo piano la categoria del turpe, anch’esso cosí copiosamente presente.
In sintesi: nei motti e nelle epigrafi non si sono volute vedere le tracce del diario spirituale degli italiani. Ma solo fotografie ritrovate da affidare al caro album di famiglia già zeppo di tenere immagini di piccoli balilla con fuciletto e fez, di giovani ripresi in attività sportivo-carnevalesche, di colonie marine con bimbi sorridenti, di feconde massaie rurali circondate da marmocchi ed orgogliosi consorti, di burberi e panciuti gerarchi impegnati a lanciare le trippe oltre l’ostacolo, o ad infilzare con la propria persona cerchi di fuoco.
Si è cosí verificato un vero e proprio processo di rimozione collettiva (che ha riguardato anche la sinistra) che ha avuto due opposte direttrici. Noi italiani, siccome siamo popolo poco serio, siamo portati ad applaudire alle cretinerie; ma siccome siamo anche italiani brava gente, lasciamo ad altri (a chi?) l’efferatezza che non ci appartiene.
In sintesi: vi è stata, e vi è, una lobotomia di giudizio che tiene separato il lobo deputato alle facezie dal lobo deputato agli orrori. Quasi che, per impedimento logico, le due categorie non possano convivere in uno stesso popolo, in uno stesso regime e perfino in una stessa persona. Per lo piú, si è ritenuto che fosse saggio voltare pagina e chiudere dentro un tarlato baule le pacchianerie e le volgarità. Non le crudeltà e le malvagità, che furono di altri regimi, ma non del nostro.
Ma non era il Duce in persona a dire che «Gli Italiani o sono feroci o sono buffoni, non sono mai seri»? e Lui era o no italiano? E quante volte ci siamo sentiti ripetere che «il Duce non era informato dei fatti», che «dopotutto il fascismo è stato un regime da operetta», che «il fascismo era duro ma sapeva anche essere generoso», che «le leggi razziali furono accolte con scetticismo perfino dai fascisti»?….

P.S.
Ho mostrato queste righe ad un amico. Mi ha fatto osservare che di epigrafi ben più oscene e blasfeme di questa ne è piena la terra, ma che nessuno si sognerebbe di staccare da una triste cancellata l’efferato «Arbeit macht frei» (Il lavoro rende liberi).
Quando i fantasmi riemergono dalle pareti, è inevitabile e legittimo che si crei fastidio ed estraneità. Ma è giusto dire: copriamo tutto, io non mi riconosco in “quei valori”, la mia identità è altra? Secondo il mio amico il discorso andrebbe rovesciato.
Detto in forma retorica: conviene coprire le oscenità e perderne la memoria, oppure è meglio sopportarne il fastidio ma mettere in guardia gli ingenui da sciagurati ed esiziali revisionismi? Ha fatto bene il sindaco di Carbonia a ricoprire lo sconcio? o sarebbe stato meglio metterlo in evidenza? Confesso che l’osservazione mi ha messo in seria difficoltà.

1 commento

  • 1 S.Mameli
    19 Febbraio 2010 - 17:30

    Trovo sicuramente interessante l’osservazione rivolta a queste attroci prese di posizione, voler cancellare un passato, per quanto triste e disonorevole, semplicemente ricoprendo le sue palesi testimonianze con sovrapposizioni e cancellature di vario genere, ad epigrammi o scritte ineggianti il pensiero di un regime ormai oggi non piu condivise.
    Non siamo forse noi stessi, sempre alla ricerca dello storico passato, a scavare nei quartieri delle nostre antiche e storiche città, consapevoli che le diverse civiltà, culture e popoli hanno a loro volta stratificato, a volerle conoscere, studiarle capirle?
    Perchè allora, non metterle in splendida mostra, è il nostro passato, la nostra storia, bello o brutta che fosse, è ciò che siamo stati.
    Ciò che abbiamo superato, per essere sempre migliori, dovremmo invece farme sfoggio, mostrare come siamo cambiati, come siamo migliorati o vorremmo essere migliori.
    Non essere revisionisti, ne disfattisti ma realisti, vedere per capire, capire e far capire, insegnare a chi non le ha vissuto ciò che è stato.
    Quindi non ritornare, rinominando le vie o ripristinando ciò che è stato, al passato. Ma presentarlo con la giusta luce, e le giuste osservazione al riguardo.
    Siamo stati, siamo, saremo, in una continua ascesa, si spera, versa il miglior futuro, fatto da gente informata e consapevole. Informare per non cadere in errore. La storia insegna sempre.

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