Capitalismo di rapina

2 Marzo 2010
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Francesco Cocco

La commissione finanze del Senato ha eliminato la norma che imponeva un tetto alla remunerazione dei top manager di banche e di società quotate in borsa non superiore alla indennità attribuita ai parlamentari. A proporre questa misura era stato il senatore Elio Lannutti di Italia dei Valori.
Mettere un limite agli stipendi dei top manager che, anche nell’ipotesi di bilanci disastrosi, si auto-elargiscono remunerazioni stratosferiche, era una misura suggerita da elementare decenza prima ancora che dal buon senso. In una situazione economica disastrosa, con un numero di dipendenti licenziati o in cassa integrazione che aumenta vertiginosamente, con prospettive di crescita pari a zero, le remunerazioni. pubblicate nei giorni scorsi dalla stampa specializzata con cifre ultra milionarie generano un senso di ripulsa morale. Riporto qualche dato: a Parazzini 7,17 milioni , a Marco Tronchetti Provera 4,39 milioni, a Luca Cordero di Montezemolo solo (si fa per dire) 3,32 milioni. Alcuni esempi in milioni di euro che tradotti in lire significano molti miliardi all’ anno. Abbiamo visto come di recente fenomeni di tal fatto abbiano generato negli USA le reazioni del presidente Obama.
La proposta del senatore Lannutti conteneva in sé aspetti non condivisibili. Questo non certo in relazione alla sacrosanta volontà di porre un limite a retribuzioni scandalose. Bisogna però riconoscere che l’equiparazione tra un’indennità per incarico istituzionale e la remunerazione per un’attività professionale d’alto livello ha in sé qualcosa di illogico.
Abbiamo avuto più volte occasione di denunciare in questo blog l’opportunità che le indennità parlamentari siano da considerare uno strumento per consentire ai meno abbienti di accedere alle massime cariche elettive. Non devono però esser mai strumento per forme di vantaggi economici non conciliabili col livello generale delle retribuzioni dei lavoratori. Il discorso va naturalmente riferito alle assemblee rappresentative, e particolarmente a quelle legislative sia nazionali che regionali.
Quindi l’equiparazione della remunerazione del parlamentare a quella di un top manager ha in sé qualcosa, come dicevamo, di aberrante per l’assurda equiparazione del parlamentare all’amministratore di una grossa società bancaria o industriale. Qualche parlamentare di non eccelso livello, nominato (non più votato) per la sua servile obbedienza al capo, potrebbe pensare di essere equiparabile ad un Marchionne che regge le sorti della Fiat e della Chrysler. Il risultato alla lunga potrebbe persino portare a un ulteriore aumento delle già eccessive indennità parlamentari. Specie se dovesse essere raggiunto il risultato, di per sé molto positivo, di ridurre il pletorico numero dei parlamentari e dei componenti i consigli regionali.
Ma tralasciamo qualsiasi considerazione morale per limitare il discorso ai danni puramente economici . E’ evidente che le spropositate remunerazioni dei top manager generano gravi danni alle aziende. Innanzitutto sono causa di grave malcontento tra il personale dipendente. Questo perché si determina un oggettivo malessere per l’incertezza del posto di lavoro unita alla esiguità della remunerazione a fronte di stock-options per i manager pari a migliaia di volte la media dello stipendio del singolo lavoratore. Vi è poi la turbolenza del mercato per evidenti atteggiamenti di rapina che generano sconcerto e sfiducia tra i consumatori e gli investitori. E sappiamo quanto la fiducia sia importante nei processi economici.
L’ultimo governo Prodi aveva pur esso messo all’ordine del giorno il problema della remunerazione dei top manager fissando un limite che sembrava accettabile. Purtroppo il ritorno al potere dell’attuale compagine di destra ha portato alla ribalta il peggior capitalismo famelico, radicando nell’opinione pubblica la sensazione che a dominare la vita produttiva del nostro Paese sia un capitalismo banditesco di pura rapina.

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