Il federalismo fiscale e Meridione

7 Marzo 2010
1 Commento


Andrea Pubusa

Il c.d. federalismo fiscale introdotto con la Legge delega n. 42/2009 merita qualche riflessione, oltre quella già formulata nei giorni scorsi su questo sito da Rosamaria Maggio.
Col Federalismo fiscale va ad esaurimento la c.d. spesa storica degli enti locali. Tendenzialmente ogni regione ed ente locale deve provvedere da sé ai propri bisogni. Il risultato è facilmente intuibile. Si accentuerà il divario fra le Regioni più povere e quelle più ricche. Infatti, questa disciplina non si fonda sull’art. 3 cpv. Cost. e sullo spirito originario dell’art. 119 Cost., ma – al contrario – espunge il principio solidaristico per fondarsi su quello concorrenziale.
Per i livelli essenziali delle prestazioni – LEP – si introduce un’eccezione o una disciplina speciale, volta, almeno formalmente alla perequazione.
Qual’è questo meccanismo?
Tutte le Regioni devono essere messe in condizione di raggiungere questi livelli minimi. Sul piano sostanziale e finanziario ad esse sono destinate:
- le entrate proprie; 
- le somme che le Regioni incassano in ragione della compartecipazione ai tributi erariali;
- il fondo perequativo.
Tuttavia il meccanismo per determinare gli standard e i costi standard dei servizi è il seguente:
si assume come parametro la Regione più virtuosa, ossia quella che rende il miglior servizio al minimo costo. E questa somma viene assicurata a tutte le Regioni.
Ora, cosa significa tutto questo?
Innanzitutto che alle Regioni svantaggiate non viene dato quanto occorre per raggiungere le Regioni più virtuose, ma dovrebbe essere assicurato quanto queste ultime spendono per rendere il servizio. Il meccanismo, dunque, anziché chiudere la forbice del divario, la amplia. Poniamo che la Regione più virtuosa abbia costi minimi perché ha già messo in sicurezza gli istituti scolastici o perché mediante l’agevolazione delle scuole private ha minori spese, mentre le regioni svantaggiate devono anzitutto ristrutturare gli edifici scolastici. E’ chiaro che queste ultime con le somme per i servizi essenziali dovranno far fronte a spese molto più elevate e, dunque, otterranno risultati meno adeguati.
Prima considerazione: c’è in questa disciplina un aspetto ideologico. Intanto sono ideologici i criteri per fissare gli standard. Ad esempio, l’Università nel Meridione ha anche una funzione di parcheggio di diplomati disoccupati. Questa funzione è vituosa o viziosa? Io sarei per la virtù, ma certamente i criteri aziendalistici in auge la collocano fra i vizi perché fa lievitare i costi del servizio. Ed allora ecco un primo terreno di battaglia: su quali criteri si fissano gli standard?
Un altro aspetto ideologico di questa disciplina: non interessa tanto la prospettiva della perequazione, quanto l’assegnazione alle Regioni svantaggiate del minimo possibile, ammantandolo di obiettività.
Il criterio è già stabilito per la sanità: se un appendicite costa 500 euro in Lombardia, viene assicurata tale somma alla Campania, anche se qui costa molti di più.
Ci sono poi molti misteri in questi neccanismi. Come si può indiiduare lo standard alle prestazioni scolastiche? Si tien conto del costo per alunno, senza considerare la diversa funzione della scuola nelle aree avanzate e in quelle svantaggiate? Una cosa è la scuola in un quartiere-bene, altra cosa in una periferia disastrata con un’alta percentuale di extracomunitari. L’integrazione di costoro è azione virtuosa o no?
Ciò che è certo è che il costo standard non copre tutta la spesa nelle Regioni disagiate. Anche il fondo perequativo può essere insufficiente. Ed allora come si copre la spesa? Coi fondi delle singole Regioni. Il che, dunque, fa sì che quelle più povere vedano accentuarsi il divario: o si riduce la prestazione o si apre ai privati.
Cos’è dunque il LEP dalla parte dei cittadini ? Da questa prospettiva, il LEP è il contenuto minimo di un diritto fondamentale, commisurato a valori di mercato. Mentre, per loro natura, i diritti fondamentali non sono commerciabili e sono “fuori dal mercato”. Devono comunque essere assicurati.
La disciplina sul federalismo fiscale - come si vede - viola lo spirito e la lettera dell’art. 2 Cost. in collegamento con l’art. 34 (diritto allo studio). Viene violato anche l’art. 3. Questo articolo pone il principio del diritto differenziato, secondo cui a situazioni diverse deve corrispondere una disciplina diversa. Il diritto differenziato prende atto della disparità per superarla. Col LEP invece a situazioni diverse di applica una prestazione identica, ossia si viola il principio di eguaglianza e la sua funzione, che è quella di intervenire positivamente con discipline e misure differenziate al fine di raggiungere l’obiettivo dell’eguaglianza.
Il PD sulla legge delega n. 42/2009 si è astenuto. In realtà anche in seno al centrosinistra sono forti le tendenze liberiste e nordiste. Ma è una visione, questa, incapace di dare risposta ai grandi problemi del paese e ai suoi tanti dualismi. La partita va dunque riaperta e senza sconti, rimettenmdo al centro la questione dell’eguaglianza formale e sostanziale.

1 commento

  • 1 Cristian Ribichesu
    7 Marzo 2010 - 12:11

    Concordo con quanto da lei scritto. La verità è che inizialmente bisognerebbe impostare un federalismo fiscale solidale, che dia pari opportunità a tutte le realtà locali.

    Voglio aggiungere, in merito alla scuola della Lombardia, che da assegni da 1000 euro, indipendentemente dal reddito delle famiglie, che comunque quello è un progetto di scuola che poi, per un risparmio nell’immediato su edilizia, manutenzione e trasporti, abbassa i livelli qualitativi generali della popolazione in età scolare, a vantaggio dei pochi che frequentano le lussuose (in Italia le scuole paritarie non sono tutte ai livelli di quelle del nord) scuole paritarie. Infatti quei 1000 euro alla fine vengono presi dalle famiglie più abbienti, quelle che possono pagare i restanti 9000 euro della retta annuale per studente, e, inoltre, si danno il doppio dei finanziamenti alle scuole paritarie che hanno, in Lombardia, un decimo degli iscritti rispetto alle scuole pubbliche. E preciso, se ci fosse qualche docente universitario fra i colleghi del prof. Pubusa che pensano all’importanza pubblica delle scuole paritarie, che proprio quelle scuole paritarie esemplari della Lombardia per me non sono pubbliche, dato che fanno discriminazioni tra gli iscritti, escludendo gli studenti disabili. Se sono pubbliche devono accettare tutti. Ecco allora che la scuola della Regione Lombardia discrimina e aumenta il divario sociale di partenza, che per il benessere di pochi poterà a un impoverimento futuro.

    Agli Stati Generali della Scuola della Provincia di Sassari, tenuti giovedì 4 marzo, si è parlato anche di razionalizzazione delle scuole in Sardegna, ma la razionalizzazione deve essere appunto dettata da un agire ragionevole. Voglio dire, e qui entrano in gioco le spese riguardanti manutenzione, trasporto degli alunni e edilizia scolastica, che certamente se una scuola è formata da un esiguo numero di alunni e senza dover affrontare uno spostamento troppo lungo questi possono, invece, frequentare in una struttura migliore a pochi chilometri, allora ben venga l’accorpamento, ma nel caso in cui l’età degli alunni sia troppo piccola, per dire alle elementari, e il viaggio sia lungo, be’ la chiusura della scuola deve essere meditata, come deve essere pensata l’importanza di una scuola in un centro che si sta spopolando o che non ha altri servizi importanti dello Stato, perchè in quel luogo la scuola può fare la differenza culturale del luogo, anche con attività serali rivolte alla comunità.
    Ma ovviamente la razionalizzazione deve essere dettata da un punto fisso, e il movimento di Sassari nato in difesa della scuola pubblica, per numerose ragioni legate alla didattica, ha chiesto alla Provincia un impegno forte nei confronti della Regione affinchè questa si doti di una legge regionale che abbassi il numero massimo di alunni per classe, non superando i 25 alunni, che non sono pochi, e i 20 se in presenza di un alunno disabile, anche nel rispetto della legge sulla sicurezza, che detta un massimo di 25 alunni per aula, ma addirittura in proporzione a circa due metri quadri di spazio per individuo (in base alle dimensioni delle aule le classi potrebbero essere anche meno numerose di 25 alunni). Sulla base di tale numero di alunni per classe si riformulerebbero le classi e nel caso si dovrebbero aggiungere aule o rimettere a norma quelle spesso inutilizzate, insomma si dovrebbe ripensare l’edilizia e la manutenzione scolastica.

    L’altra richiesta formulata dal movimento di Sassari è, per il prossimo anno, e senza tentennamenti da parte della Regione, che vengano utilizzati i fondi regionali dell’istruzione per pagare i contratti annuali dei docenti precari della Sardegna che già lavoravano nelle scuole fino alla fine delle attività didattiche, del resto come fatto in altre regioni d’Italia, per assicurare i normali diritti dei lavoratori anche agli insegnanti “precari” vincitori di concorsi e scuole di specializzazione (ma in altri enti pubblici, per descrivere questa anomalia italiana, dopo anni di lavoro continuativo a tempo determinato, viene assicurata la stabilizzazione), fornendo le scuole di quel personale che serve fin da settembre e con regolarità, visto anche che quest’anno la destinazione di tali cifre per i progetti regionali è stata fallimentare, che molti progetti sono partiti tardi, che molti docenti precari lavorano per poche ore la settimana e che molti sono stati definitivamente tagliati fuori dal sistema, disoccupati, e che invece nelle scuole medie, per mancanza di ore a disposizione, gli alunni stanno perdendo centinaia di ore di lezione, un danno gravissimo che deve essere evidenziato con forza.

    Insomma, in questo frangente di smantellamento della scuola pubblica statale, l’unica che non faccia discriminazioni e la sola che possa mettere in atto quei principi fondamentali della persona, dettati dalla nostra e da altre Costituzioni, anche in campo internazionale, quali un’istruzione di base che superi le differenze socio-economiche, la soluzione per il miglioramento della qualità delle lezioni, per, appunto, migliorare i livelli di apprendimento delle lezioni, passa per un’unica via che vede incontrarsi la diminuzione del numero massimo degli alunni per classe e la stabilizzazione dei docenti precari, sia per il diritto al lavoro di questi ma anche per dotare le scuole di più personale, che nella realtà si sta dimostrando che serve, sia per rendere le fasce d’età dei lavoratori dell’istruzione, la classe docente più anziana d’Europa, più omogenee, con l’introduzione dei giovani, compresi mediamente fra i 25 e i 40 anni, senza bloccare il ricambio generazionale.
    La soluzione è semplice, e le risposte più complesse al problema scuola spesso nascono da chi su tale aspetto, e anche sulla sorte dei precari, ci vuole speculare. Se i dati Ocse PISA indicavano dei livelli di apprendimento degli alunni delle scuole medie e superiori inferiori alla media degli altri paesi confrontati, la soluzione poteva essere l’aumento degli alunni per classe, l’interruzione della continuità didattica di molti alunni tagliando i docenti che avevano le supplenze del Provveditore, il blocco del ricambio generazionale, l’aumento dell’età minima e massima pensionabile? E dopo un anno di “riforma”, visti gli enormi danni che si sono abbattuti sulla scuola e sui suoi lavoratori, davanti all’ostinazione del gruppo politico che ha generato tali problemi, come possono tutti gli altri partiti, movimenti, dirigenti, docenti e tutte le parti in causa, cercare un dialogo con gli attuali Governi nazionale e regionale, se non vogliono abolire questa falsa riforma scolastica?

    Se davanti al federalismo fiscale gli enti locali pensano di risparmiare sulla scuola, allora non penso, francamente, si potrà mai colmare quel divario socio-economico che separa le regioni del Meridione da quelle settentrionali. I fondi per l’Istruzione esistono, sia in ambito nazionale, ad esempio gli 8 miliardi di euro che vogliono investire per il ponte di Messina equivalgono alla stessa cifra taglita alla scuola in tre anni, sia in ambito locale, dove si è pronti a spendere 100 milioni d euro per acquistare nuovi palazzi regionali. Ma poi esistono anche spese vive, sprechi, che sono lampanti agli occhi di tutti.

    Indipendentemente dal federalismo fiscale gli sprechi vanno eliminati, o almeno contenuti, ma per rilanciare la Sardegna bisogna investire in istruzione, e senza speculazioni sul mondo scolastico o sulla sorte dei docenti precari, laureati e specializzati, anche per riqualificare l’economia isolana.

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