La crisi del sardismo

12 Aprile 2010
2 Commenti


Andrea Raggio

Il sardismo, espressione politica del sentimento identitario dei sardi, sembra avviato a estinzione. Le fonti culturali che lo alimentavano sono andate inaridendosi e i partiti hanno abbandonato la visione dell’Autonomia, essenza del sardismo, per seguire falsi miti. Il partito storico del sardismo, il Partito sardo d‘azione, è spaccato in due parti. Entrambe propugnano un confuso indipendentismo, l’una vivacchiando all’ombra del berlusconismo, l’altra sforzandosi di ritagliarsi uno spazio a sinistra. Il centrosinistra ha scelto il presidenzialismo per privilegiare il decisionismo senza consenso e la stabilità da caserma a scapito della democrazia, ridotta a un optional. Per il centrodestra la Regione deve essere amica del Governo amico, cioè berlusconiana. L’idea di matrice leghista che le forzature dell’autonomismo in chiave secessionista servano a fronteggiare la crisi è penetrata anche in Sardegna, alimentando le chiusure regionalistiche. Così la cultura dell’identità rischia di scadere a culto della diversità e a folklore, la sardità a mero dato anagrafico.
All’esaurimento del sardismo corrisponde per un verso l’aggravamento della condizione economica e sociale dell’isola e la ripresa dello storico divario, per altro verso un sentimento identitario sempre più diffuso, consapevole ed esigente, alimentato dalla crescita culturale e dall’apertura al mondo. Si avverte un risveglio della visione dinamica dell’identità, come di un bene che vive se vive nel tempo presente e nel confronto con altre realtà e culture, concorrendo ad arricchire l’identità nazionale e quella europea. La crisi del sardismo, a ben vedere, nasce dalla stridente discordanza tra questo sentimento identitario e la politica regionale sempre più asfittica. In conclusione, la crisi di cui parliamo è quella del vecchio sardismo. E della politica.
Un dibattito sulle cause del fenomeno non può non avere come principale punto di riferimento i cambiamenti epocali intervenuti dalla fine degli anni ’80, quando con la caduta del muro di Berlino sono venuti meno anche gli ultimi argini all’irrompere della globalizzazione, e quando dalla Piccola Europa si è passati alla Grande Europa e si è fatto sempre più stringente il rapporto tra sovranità nazionale e sovranazionalità. Con Tangentopoli, inoltre, è stato smantellato l’intero sistema dei partiti tradizionali. In Sardegna i contraccolpi di questi sconvolgimenti si sono intrecciati con l’esaurimento della politica di Rinascita e di Intesa autonomista. La formazione della prima Giunta di sinistra, nel dicembre 1980, aveva posto fine in Regione alla conventio ad excludendum e avviato la fase dell’alternanza. Le trasformazioni dell’economia e della società sarda avevano segnato il raggiungimento di uno degli obiettivi della Rinascita, quello della rottura del sottosviluppo generalizzato. Questo insieme di circostanze richiedeva un forte impegno per sviluppare la cultura dell’Autonomia adeguandola al cambiamento epocale intervenuto nel mondo, in Italia e nell’isola. Richiedeva un vero e proprio salto di qualità della politica. Si è andati, invece, ripiegando sulla chiusura regionalistica, nella convinzione di fare così argine all’assalto della nuova realtà esterna e interna. E le difficoltà della politica sono state scaricate sull’Istituzione autonomista. Si è andati invocando a gran voce e confusamente una riforma dello Statuto sempre più grande e sempre più radicale, senza peraltro indicarne la finalità e la direzione. Si sono così affastellate diverse ipotesi: nuova forma giuridica della specialità, nuova forma dell’Autonomia, Costituzione sarda, Comunità autonoma della Sardegna, Autonomia non solo speciale ma particolare, modello catalano, riforma nazionalitaria, Indipendentzia e via arrancando. L’aver agitato per lungo tempo la “grande riforma” senza realizzarla ha finito col delegittimare lo Statuto vigente. La riforma dello Statuto è diventata un diversivo alla stessa stregua del decisionismo, della cosiddetta stabilità politica, dell’etnocentrisno. E della sardità si è fatto scempio. A proposito de “Sa Die de sa Sardigna”, voluta nel 1993 in ricordo del 28 aprile 1794, - giorno in cui il “popolo eroico allontanò per un trimestre i funzionari piemontesi, con famiglia o no”- e in sostituzione della Festa della Regione istituita nel 1953 nel clima della rinata democrazia, ecco cosa scriveva Michele Columbu: “Con odiosa franchezza, dirò che a me pare un surrogato di qualcosa che la Regione non ha fatto e non fa, una maschera e un imbroglio per nascondere altre inadempienze”. E che dire de “Sa Limba Sarda Comuna”, altro stravagante diversivo, solennemente deliberato dalla Giunta regionale nell’aprile2006 e delle assemblee politiche convocate all’ombra dei nuraghi?
Colmare il divario tra il sentimento identitario e la politica: questo è il problema. Non si comincia da zero. Sulla riforma dello Statuto non mancano idee e contributi, tra questi segnalo gli atti del seminario promosso nel 2008 dall’Associazione degli ex consiglieri regionali (…tutti i mutamenti intervenuti hanno trasformato anche i termini classici della questione sarda e fanno sì che autonomia, ancor più che in passato, significhi interdipendenza, sussidiarietà, coesione, equilibrio; comporti l’abbandono della vecchia concezione garantista e difensiva dell’autonomia speciale sarda). Sulle questioni, economiche e sociali, inoltre, le organizzazioni sindacali vanno prospettando una strategia orientata a saldare emergenza e sviluppo facendo leva sull’insularità, cioè sul superamento delle diseconomie in funzione della valorizzazione delle potenzialità della Sardegna-isola: centralità mediterranea, ambiente e industrie legate all’ambiente, telecomunicazioni. In questa visione l’insularità risulta essere quello che effettivamente è oggi, non una disgrazia ma un’importante risorsa, una questione d’interesse nazionale ed europeo.
Cominciano, dunque, a delinearsi nuovi cardini del rapporto tra democrazia e sviluppo – fondamento dell’Autonomia, come ricordava Renzo Laconi - e le direttrici della riforma dello Statuto: partecipazione alle scelte nazionali ed europee, trasformazione della Regione da Ente in Ordinamento (un potere centrale regionale forte (ma non centralista) e autonomie locali altrettanto forti), principio d’insularità. Vi sono, dunque, le condizioni per un ampio sviluppo del dibattito e dell’iniziativa politica. La Rinascita degli anni ‘60 e ‘70 non fu soltanto una buona legge, in parte purtroppo disattesa da un piano inadeguato, fu un grande movimento di popolo, una straordinaria esperienza democratica che ha cambiato il volto della Sardegna. Animatori e organizzatori furono i partiti autonomisti, i sindacati e gli intellettuali. Di una mobilitazione analoga per ricchezza di contributi, ampiezza e costanza abbiamo oggi bisogno.

2 commenti

  • 1 Bomboi Adriano - SANATZIONE.EU
    12 Aprile 2010 - 13:06

    Buongiorno,
    Non condivido la sezione iniziale di questa lettura, qualsiasi analista politico internazionale oggi del resto è concorde sul fatto che con la caduta del muro di Berlino non solo sì (come Andrea Raggio diceva) si è ridisegnato il ruolo tra sovranità nazionali e sovranazionali, ma sono ripartiti con nuovo vigore anche quei processi di identificazione etnico-culturale un tempo imbrigliati e sacrificati sulla causa del bipolarismo USA-URSS e della relativa stabilità dello stato-nazione su cui si fondavano entrambi i blocchi. Da smentire ovviamente anche il fatto che il Leghismo abbia influenzato verso il secessionismo l’area Sardista come modulo di rivendicazione politica: Fu all’alba degli anni ‘80 (Congresso di Porto Torres) che il PSD’AZ adottò l’indipendentismo come base programmatica e statutaria da realizzarsi su base federalista (quindi con ripartizione graduale dei poteri da stato centrale ad entità periferica). Se c’è pertanto qualcuno in “Padania” che ha applicato qualcosa che quì non si è riusciti a fare (per una serie di motivazioni quì lunghe da argomentare), questi sono proprio i Leghisti (con modalità comunque discutibili e che non condivido) e che casomai sono stati influenzati nel passato dai tempi d’oro (o presunti tali) del sardismo. Il Sardismo post-anni ‘70 è fallito semplicemente perché non si è dato seguito a quel dibattito che si stava realizzando (ed attorno a cui c’era consenso) sullo sviluppo della sovranità. In questo senso sì, c’è stato un tradimento ed un spinta che si è perduta. Ma se si sta recuperando oggi, non va necessariamente bollata come “nefasta influenza Leghista”. Ricordo inoltre che chi influenzò il dibattito alla fine degli anni ‘70 fu proprio l’ambiente INDIPENDENTISTA (che portò anche alla riscrittura dello statuto azionista) e non i sedicenti partiti autonomisti (che infatti non esistevano): Quelli sono nati soprattutto negli ultimi 15 anni, proprio per coprire un proteiforme bacino politico che il vecchio PSD’AZ non ha saputo, voluto e potuto gestire. In questo concorse anche il vecchio PCI, pensiamo, tra i vari dettagli, ai veti sulla legge per la Lingua Sarda che l’allora PSD’AZ tentava di innestare. Uno di questi era Gesuino Muledda, oggi guardacaso scopertosi Rossomori. E poi le note ragioni poltronare varie, senza escludere la palese incapacità di alcuni dirigenti: Forse culturalmente poco idonei alla gestione di una dimensione sub-natzionalitaria della Sardegna comunque presente. Infine, quando parliamo di insularità, ricordiamoci che il punto di riferimento per il potenziamento dell’interscambio con l’esterno non deve essere solo Roma, Genova, Milano, ecc. Pensiamo anche a Parigi, Barcellona, Londra, Berlino, ecc. Cerchiamo di uscire dal provincialismo italiano per diventare veramente protagonisti in Europa e nel mondo. Ma per fare questo bisogna prima capire che tipologia di statuto si intenderebbe proporre. E non è con le accuse di confusione ed influenza leghista verso l’area nazionalista Sarda che lo capiremo. Cordiali Saluti.

  • 2 Efis Pilleri
    14 Aprile 2010 - 12:22

    L’articolo di Andrea Raggio ha il merito di evidenziare come la devastante crisi attuale del sardismo riguardi non solo PSDAZ, ROSSOMORI, SARDIGNA NATZIONE, IRS, bensì tutto il mondo politico sardo ed influenzi molto negativamente le prospettive della Sardegna.
    Detto ciò non si può essere d’accordo con l’analisi svolta, neppure considerando i ristretti limiti di un articolo. Sicuramente più condivisibile lo scritto di Bomboi Adriano che si colloca peraltro in un discorso articolato e coerente che lo stesso porta avanti da tempo nel sito della propria organizzazione.

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