Matrimoni gay: la Corte non li introduce, ma non li vieta

15 Aprile 2010
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Andrea Pubusa

La Corte Costituzionale ha rigettato i ricorsi sui matrimoni gay, ma non ha chiuso alla prospettiva ch’essi siano inrodotti nel nostro ordinamento. I giudici della Consulta - secondo quanto si è appreso - nelle motivazioni della decisione sostengono che compete alla discrezionalità del legislatore la disciplina dei matrimoni gay. Cosa vuol dire? Significa che attualmente non esistono norme che consentano matrimoni fra persone dello stesso sesso, ma che la legge può prevederli. Se è vero, dunque, che la decisione non è di ammissione immediata dei diritti dei gay, al tempo stesso non abbraccia la tesi reazionaria secondo cui  la Costituzione prevede solo matrimoni fra uomo e donna.
Certo, la Consulta poteva fare di più. L’art. 2 della Costituzione, che disciplina i diritti fondamentali, secondo la comune opinione dei costituzionalisti, è una norma aperta, nel senso che non si limita a prevedere un catalogo prefissato ed immobile di diritti basilari. C’è dunque la possibilità d’inclusione nell’elenco di quei diritti che pian piano vengano ad emersione nella società. Così il diritto all’ambiente, pur non espressamente previsto nella Carta, rientra oggi fra quelli fondamentali, al pari di tanti altri nel 1948 ritenuti tali solo da ristrette avanguardie intellettuali. In questa prospettiva non sembra seriamente contestabile che da una Costituzione come la nostra che pone il principio personalista alla sua base (ossia che pone al centro la persona in quanto tale) non si debba trarre il diritto dei gay a contrarre matrimonio. La Corte spesso ha compiuto questa operazione dichiarando illegittime norme dell’ordinamento nella parte in cui non prevedono la tutela di taluni diritti ritenuti esistenti in quanto desumibili dal catalogo aperto dell’art. 2. Si tratta di decisioni creative, che introducono nella legislazione discipline ritenute direttamente desumibili dalla Costituzione.
Ecco perché non convince il rigetto da perte della Corte dei ricorsi sui matrimoni gay, dichiarando inammissibili le questioni sollevate dai Tribunale di Venezia e dalla Corte di Appello di Trento in relazione all’ipotizzata violazione degli articoli 2 (diritti inviolabili dell’uomo) e 117 primo comma (ordinamento comunitario e obblighi internazionali) della Costituzione. Ancor meno è condivisibile l’asserita infondatezza dei ricorsi in relazione agli articoli 3 (principio di uguaglianza) e 29 (diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio). Ci sembra abbastanza evidente la violazione del principio di eguaglianza giacché per chi è gay la decisione della Corte conferma, in relazione al matrimonio, una irragionevole disparità di trattamento verso chi non lo è.
Ma la materia è ancora troppo incandescente perché la Consulta potesse adottare una decisione conforme agli orientamenti più avanzati in tema di diritti, in presenza di una maggioranza omofoba, servile verso le intollerabili ingerenze vaticane sul tema.
A portare la questione all’ attenzione della Corte Costituzionale erano stati il tribunale di Venezia e la Corte di Appello di Trento chiamati a dirimere le vicende di tre coppie gay alle quali l’ ufficiale giudiziario aveva impedito di procedere alle pubblicazioni di matrimonio. Nei ricorsi alla Consulta si ipotizzava il contrasto tra gli articoli del codice civile sul matrimonio con diversi principi sanciti dalla Costituzione. In particolare l’ingiustificata compressione degli articoli 2 (diritti inviolabili dell’ uomo), 3 (uguaglianza dei cittadini), 29 (diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio) e 117 primo comma (ordinamento comunitario e obblighi internazionali) della Costituzione. I ricorrenti, in sostanza, affermavano la non esistenza nell’ordinamento di un espresso divieto al matrimonio tra persone dello stesso sesso e lamentavano l’ingiustificata violazione di un diritto fondamentale (quello di contrarre matrimonio) oltre che la lesione di una serie di diritti sanciti a livello comunitario. Per non parlare poi della disparità di trattamento tra omosessuali e transessuali, visto che a questi ultimi, dopo il cambiamento di sesso, è consentito il matrimonio tra persone del loro sesso originario. In realtà, la violazione è manifesta anche nei confronti delle coppie di etrosessuali, trattandosi in ogni caso di persone.
Nel corso dell’udienza pubblica a palazzo della Consulta, lo scorso 23 marzo, i legali delle coppie gay avevano sollecitato la Corte a dare una “risposta coraggiosa” che, anticipando l’intervento del legislatore, consentisse il via libera ai matrimoni omosessuali. Dal canto suo, invece, l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri, per conto della presidenza del consiglio, aveva ribadito che il matrimonio si basa sulla differenza tra sessi e aveva rivendicato il primato del legislatore a decidere su una materia tanto delicata. La Corte, nel dichiarare inammissibili e infondati i ricorsi, fa già intendere ciò che metterà nero su bianco tra qualche settimana e cioé che non è sua competenza stabilire le modalità più opportune per disciplinare le relazioni tra persone dello stesso sesso. Resta da vedere - ma questo si comprenderà solo dalla lettura delle motivazioni della sentenza che sarà scritta dal giudice Alessandro Criscuolo - se la Corte coglierà l’occasione o meno per sollecitare il legislatore a provvedere.
In conclusione, la Costituzione italiana non vieta i matrimoni tra persone dello stesso sesso, cosicché la decisione della Consulta non è certo “un epilogo” ma semmai un’occasione di rilancio della campagna sulle unioni gay, come ben dice a caldo il Comitato delle Associazioni dei gay.
Un ulteriore passo potrebbe essere quello di un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, dove già pende un ricorso che riguarda l’Austria. Nel nostro Parlamento giacciono ben sei proposte di legge. La lotta continua.

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