Perché il lavoro deve tornare a “farsi partito”

15 Ottobre 2011
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Piero Di Siena

Pubblichiamo, oggi e domani. una interessante riflessione. apparsa su “Alternative per il socialismo”, che individua nel lavoro l’elemento centrale per la ricostruzione della sinistra.

Sotto l’incalzare dei colpi della crisi economica e finanziaria, che in Italia s’intreccia alla crisi morale delle classi dominanti prodotta da quasi venti anni ormai di quello che si suole chiamare berlusconismo, sembra che nel corso di questa estate il divorzio tra società (cittadini, opinione pubblica, interessi organizzati a tutti i livelli della scala sociale) e politica si stia nel nostro Paese irreversibilmente consumando.
Non deve sfuggirci che, ad allargare le distanze tra società e politica, contribuiscono attori le cui motivazioni sono, paradossalmente, eminentemente politiche. Sulla sfiducia generalizzata dei cittadini verso la politica e la principale istituzione democratica, che è il Parlamento, conta il centrodestra per continuare a sopravvivere sia pure in una condizione di permanente agonia. Su di essa puntano i “poteri forti” dell’economia e dell’informazione – da Confindustria, al “Corriere della Sera” a “Repubblica”, e persino la Fiat di Marchionne -, diversamente schierati rispetto all’arco delle forze politiche esistenti, ma uniti nell’attacco alla “casta” e ai suoi privilegi. E fortemente tentati dall’ipotesi di un “papa straniero”, Montezemolo in primis, nella lotta per la successione a Berlusconi e al suo sistema di potere, ripetendo in un certo senso lo schema, di fronte a una politica esausta, che ha portato dopo Tangentopoli proprio Berlusconi alla guida del Paese. Tra le opposizioni parlamentari i destini del Terzo Polo sono in parte legati alla realizzazione o meno del progetto dei “poteri forti” cui si è accennato, il Pd di Bersani oscilla tra riedizione del centrosinistra e coalizione neocentrista con Casini, della politica “corsara” di Italia dei Valori non è semplice prevedere gli sbocchi.
E la sinistra, quella che dopo le elezioni del 2008 è stata esclusa dal Parlamento e stenta a trovare la strada per una sua ricostruzione e la sua rinascita? E’ evidente come essa sia lacerata e combattuta. Da un lato è preoccupata a non farsi assimilare a un ceto politico sempre più autoreferenziale e privo di legittimazione presso strati sempre più ampi di opinione pubblica e, quindi, tenta di tenere il passo con tutto ciò che nel suo potenziale mondo di riferimento produce opposizione sociale e civile, quell’”indignazione” e quello spirito di rivolta che sembra essere l’unico modo autentico rimasto per collocarsi a sinistra (dagli appuntamenti di ciò che resta del “popolo viola”, a ciò che si muove attorno alla Fiom e alle sue battaglie, alla protesta civile di quei ceti riflessivi che da parte di Micromega a Libertà e Giustizia si intende rappresentare). Ma dall’altro è anche difficile, per la sinistra, liberarsi dalla preoccupazione che, nel clima generale che attraversa il Paese, anche questi movimenti diventino preda dell’antipolitica e imbocchino strade al cui termine c’è solo rabbia e protesta senza sbocchi. Del resto, come non vedere che all’origine del silenzio e dell’impotenza in cui sembrano essere piombati i movimenti referendari, che pure sono stati protagonisti della più importante vittoria della parte progressiva del Paese che ci sia stata nell’ultimo decennio, vi sia la difficoltà a mettere a disposizione quel risultato per un progetto di cambiamento più generale, impedendo così – complice l’incombere della crisi economica e finanziaria – che quella vittoria contribuisca alla costruzione di una sintesi più ampia e di un programma alternativo.
Questo stato delle cose, tuttavia, non è ineluttabilmente senza alternative. Vi sono gli spazi, di fronte alla gravità della crisi economica e finanziaria che si è abbattuta sull’Occidente, e che per tanti ragioni espone in modo particolare il nostro Paese, perché da sinistra si costruisca una proposta che sappia coniugare radicalità delle trasformazioni da perseguire nella prospettiva e realismo delle scelte immediate per fronteggiare l’emergenza del debito pubblico. La scelta della Cgil di rispondere all’iniqua manovra del governo con lo sciopero generale il 6 settembre, nei giorni della discussione al Senato, è stata quanto mai opportuna non solo per le ragioni di merito che l’hanno provocata, ma perché ha tentato di offrire una cornice e una sintesi al movimento di protesta che comunque sarebbe esploso in mille rivoli, cercando anche di stabilire una connessione possibile tra battaglia parlamentare e azione sociale, se nel Parlamento vi fosse stato qualcuno che se ne fosse fatto interprete senza incertezze.
Ma, detto ciò, a sinistra si sbaglierebbe a pensare che tale scissione tra istituzioni della democrazia rappresentativa e malessere della società – in cui la politica, paradossalmente, diventa la principale imputata perché ridotta a specchio passivo dei difetti peggiori della società civile – possa essere risolta solo sul terreno delle scelte immediate. Persino nel Pd vi sono posizioni e voci (da Andriani a Fassina) che indicano nei processi di globalizzazione e nella crisi che essi hanno provocato le cause di fondo dello stallo in cui versano le democrazie occidentali. Alfredo Reichlin, da tempo, sottolinea come le profonde trasformazioni intervenute nella divisione internazionale del lavoro con l’irrompere sulla scena dell’economia capitalistica mondiale di Cina, India e Brasile mettono in discussione il ruolo e l’idea stessa di Occidente, quel rapporto tra democrazia e capitalismo che – sia pure attraverso percorsi travagliati segnati dal totalitarismo e dal fascismo – Stati Uniti e Europa hanno realizzato. E che questo comporta cambiamenti epocali che investono il destino medesimo dell’umanità. A conclusioni analoghe, sul versante della sinistra, è giunto Fausto Bertinotti nel suo recente libro Chi comanda qui?, nel quale fa coincidere la crisi delle democrazie occidentali con la fine dei “”Trent’anni gloriosi” e del compromesso socialdemocratico postbellico.
Se questa è dunque la dimensione dei problemi, del resto tratteggiata già qualche anno fa nel suo saggio sulla “postdemocrazia” da Colin Crouch, ben difficilmente il divorzio tra società e politica, che in Italia è giunto a livelli di particolare acutezza, potrà essere colmato se non si assume un punto di vista che vada oltre i confini nazionali e sappia tenere assieme le specifiche contraddizioni del nostro Paese e una visione più generale dei caratteri della crisi attuale. Ebbene, è mia opinione che è possibile affrontare il divorzio tra società e politica, che costituisce la manifestazione più immediata della crisi della democrazia rappresentativa, se ritorna all’ordine del giorno la ricostruzione di una rappresentanza politica del lavoro così come esso si è trasformato nel corso della rivoluzione neoconservatrice dell’ultimo trentennio. E’ questo, probabilmente, il principale fattore di continuità che tiene insieme il secolo scorso e quello appena iniziato, rispetto ai tanti importantissimi elementi di discontinuità che hanno caratterizzato il passaggio da un secolo all’altro. A ben vedere, infatti, dal momento in cui il movimento operaio irrompe da protagonista sulla scena della storia contemporanea, è sempre stato così. Sono state le lotte per l’emancipazione e la liberazione del mondo del lavoro che – dalla formazione degli stati liberali di massa di fine Ottocento e la conquista del suffragio universale maschile fino all’affermazione degli Stati sociali sorti nel secondo dopoguerra – hanno provocato uno sviluppo in senso progressivo dei sistemi politici nel loro complesso e l’affermarsi delle libertà democratiche.
Il tema all’ordine del giorno, dunque, a sinistra dovrebbe essere innanzitutto come ridare rappresentanza politica al lavoro, a partire dalla consapevolezza che le difficoltà che da decenni si incontrano nella realizzazione di questo compito, più che frutto di cedimenti culturali e politici, che pure ci sono stati, costituiscono un problema storico irrisolto. Insomma, come è possibile dare nuova rappresentanza politica al lavoro, se questo entro i processi di globalizzazione assume sempre più una dimensione internazionale mentre quella che dovrebbe essere la sua rappresentanza politica resta chiusa entro i confini nazionali?
Eppure mai come ora, nella storia del mondo contemporaneo, la potenza materiale e il peso oggettivo del lavoro sono stati così grandi. Infatti, mai come oggi, il lavoro che nasce all’interno dei rapporti di produzione e di riproduzione del capitalismo è stato così diffuso su scala mondiale, a cominciare da quello operaio, legato allo sviluppo dell’industria manifatturiera nei paesi emergenti dell’Asia, e in parte dell’America latina. Cioè mai il lavoro, e in particolare quello industriale, ha raggiunto pari livelli di universalizzazione dal sorgere del capitalismo, e mai come oggi il fatto che esso prenda “coscienza di sé” (come si sarebbe detto un tempo), che si dia appunto nelle diversi parti del mondo una rappresentanza politica autonoma – attraverso percorsi e una costruzione della propria identità per tanti aspetti allo stato delle cose imprevedibili – è essenziale al fine del superamento di quelle contraddizioni che segnano l’insostenibilità ambientale e sociale dell’economia-mondo attuale.
Se mai vi sono state condizioni oggettive che possono dare senso all’aspirazione acché il lavoro salariato liberando se stesso liberi tutta l’umanità mai esse sono state così grandi come nell’epoca attuale. È questa la ragione per cui tale aspirazione può e deve tornare a essere idea regolativa dell’agire politico. Rapporto tra i sessi, tra crescita e ambiente, tra libertà e uguaglianza, su cui da tempo a sinistra ci s’interroga, più che questioni che si aggiungono alla contraddizione capitale lavoro, sono la dimensione nuova entro cui tale contraddizione si manifesta, in un quadro segnato da un capitalismo che afferra e subordina a sé il senso stesso del’esistenza umana.

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