Com’era bello il mio PCI, di D. Novelli

27 Agosto 2008
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Recensione a cura di Andrea Pubusa
 

Com’era bello il mio PCI di Diego Novelli.
La vita della sezione e i suoi tipi umani, la diffusione militante dell’Unità, il rito del congresso, i vezzi e la retorica del dibattito politico. Una nostalgia ragionata del Partito comunista italiano e lo spietato contrappunto con la sinistra di oggi. Attraverso storie, personaggi, aneddoti divertenti, Novelli smonta le false verità sul partito scomparso nel 1991, ma non chiude gli occhi davanti alle questioni critiche, prima fra tutte il rapporto con l’Unione Sovietica e i paesi del socialismo reale. Se il vecchio Pci aveva le sue spine, sostiene l’autore, la sinistra di oggi ne ha perso le buone tradizioni senza rimpiazzarle. Così le appassionate discussioni all’interno delle sezioni sono state sostituite da “un’oligarchia” che vive soltanto nei dibattiti “di Ballarò” e per conoscere l’opinione dei militanti “deve rivolgersi ai call center”. Una trasformazione narrata anche attraverso impietosi giudizi sui vecchi compagni, come Giuliano Ferrara, Walter Veltroni, Nilde Jotti, Emanuele Macaluso e tanti altri.

Ecco un recensione dal sito de L’Ernesto.
Diego Novelli lo manifesta con sincera nostalgia. Della scomparsa del vecchio Partito Comunista, nel quale aveva militato per oltre un quarantennio, fino alla svolta di Occhetto della Bolognina, lui si sente orfano, e non per caso ha voluto titolare il suo ultimo libro “Com’era bello il mio Pci”, uscito per l’editore Melampo. L’amatissimo ex-sindaco di Torino (lo fu dal 1975 per dieci anni, nel pieno della stagione del terrorismo e delle lotte davanti ai cancelli della Fiat) ed ex-parlamentare scrive con rimpianto (e senza incorrere in alcun esercizio di maniera) dell’impegno nel partito , iniziato da giornalista nella redazione dell’Unità di Torino, irrobustito negli anni dentro le strutture di base e portato all’apice nello svolgimento della funzione di quadro dirigente. Per Novelli il Pci era una grande università della politica e della vita, e chi ancora si ostina ad etichettarlo in un “mostro noioso, monolitico, brodoso, logorroico” secondo lui non afferma il vero. Non nasconde del suo amato ex-partito certe pruderie o moralismi, ma chi si aderiva la faceva con l’ansia e la tensione di entrare direttamente a contatto con le problematiche dei ceti più deboli. Essere classe dirigente della più grande forza della sinistra italiana significava avere come termometro di lotta la domanda che arrivava dalle fabbriche e dagli umori delle piazze. Altri tempi rispetto all’oggi, in cui la sinistra non è più sinistra perché ha deliberatamente abbandonato il terreno delle battaglie delle idee e rinunciato a rinsaldare quel ruolo culturale, civile e pedagogico che dovrebbe sempre distinguerla dal restante panorama politico. Secondo Novelli la politica della sinistra italiana sta pagando lo scotto di trent’anni di sudditanza al Craxismo e al Berlusconismo, e dal suo attento osservatorio al momento non si intravedono inversioni di marcia, non si sta seminando per un progetto convincente di un socialismo moderno dedito a pianificare le ingiustizie del paese e a confrontarsi con quelle del mondo. Ormai il teatrino della politica boccheggia intorno alle miserie della televisione. Anche “l’attuale classe dirigente dei Ds – scrive Novelli – non ha alcun rispetto non dico per gli elettori, ma nemmeno per gli iscritti. Loro fanno tutto in televisione attraversò Ballarò e Porta porta. Ci vanno sempre gli stessi e pontificano su tutto e tutti. Esattamente come fa la destra. E l’opinione della gente?” Ecco questo è il punto centrale del libro, la gente, le masse che sono state estromesse dal recinto della politica anche per la ragione che non ci sono più forze come il vecchio Pci che sapevano inculcare interessi di ogni tipo. Naturalmente tutta l’analisi di Diego Novelli ripercorre per flash le principali esperienze personali: la formazione nella sezione numero 26 di Torino, i difficili ed entusiasmanti anni della sindacatura, il fraterno legame con Pajetta, la stima sconfinata per Enrico Berlinguer, lo strappo non condiviso della Bolognina , l’uscita in punta di piedi da un Parlamento ormai abitato solo dal fantasma delle buone intenzioni e da gente intenzionata a gestire con “piglio padronale” le istituzioni. Novelli, inoltre allega quella che lui chiama “note sull’anno in cui la sinistra andò al governo” e che si risolvono in ritratti indigesti – tra gli altri - di Giuliano Ferrara, Massino Cacciari, Walter Veltroni, Adriano Sofri, Sergio Chiamparino, Mario Segni, Gianni Agnelli. Il libro di chiude con una speranza, quella di rianimare una sinistra (senza aggettivi) coraggiosa nel cimentarsi “sui contenuti , sui problemi, sulla base di analisi e di studi della realtà”.

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