I nuovi schiavi, di K. Bales

21 Agosto 2008
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Recensione a cura di Paolo Albertazzi

Kevin Bales, I nuovi schiavi. La merce umana nell’economia globale, Milano, Feltrinelli, 2000, pp. 265 (ed. or. 1999)
«Oggi, a livello internazionale, è più probabile che stati e imprese private vengano puniti per aver falsificato un CD di Michael Jackson che per aver impiegato manodopera schiava».
Man mano che ci si inoltra nella lettura di questo bel libro di Bales è probabile che nella mente del lettore - così come è capitato al sottoscritto – prenda sempre più spazio un sinistro interrogativo: perché mai il capitalismo dovrebbe rinunciare ad uno strumento ad esso così funzionale come la schiavitù di tipo contemporaneo, che fornisce mano d’opera a costo pressoché uguale a zero, non coperta da alcuna garanzia e tanto flessibile da poter essere persino eliminata fisicamente in caso di malattia o di fine del lavoro? Sarà questo lo sviluppo futuro della nostra economia? In realtà Bales si occupa solo tangenzialmente di questo aspetto, ma l’accuratezza delle sue stime sui profitti delle aziende basate sulla schiavitù (dal bordello dell’Eterna prosperità a Bangkok ai minimarket della Mauritania - anche il 1.000 % di guadagno!), testimonia la sua attenzione per tale fenomeno e forse la sua apprensione di fronte ad uno sviluppo tanto aberrante del “libero” mercato.
Bales parte come ricercatore sulle nuove forme di schiavitù per ritrovarsi, nel corso delle sue indagini, militante dell’associazione Anti-Slavery International. Tale punto di vista schierato e necessariamente parziale non toglie nulla, considerato il carattere vergognoso del fenomeno studiato, alla serenità dell’analisi e del giudizio. Uno dei maggiori punti di forza di un simile studio consiste proprio in questa capacità di coinvolgimento del lettore, che fa sì che al termine del libro molte cose non gli appaiano più come prima. Non si tratta di effetto di poca portata!
In realtà lo studio di Bales non concede molto al sensazionalismo e risulta anzi fondato sui più classici modelli dell’indagine sociologica. In primo luogo l’autore individua una sorta di “Idealtypus” di schiavitù contemporanea (alla quale stima siano soggetti oggi circa 27 milioni di individui), paragonandola e mettendola a confronto con la forma classica di schiavitù. Non mi pare inutile riportare la sua tabella riassuntiva di questi due tipi:
schiavitù classica                               schiavitù contemporanea
- propietà legale accertata                        - proprietà legale evitata
- alto costo d’acquisto                        - bassissimo costo d’acquisto
- bassi profitti                                     - elevatissimi profitti
- scarsità di potenziali schiavi               - surplus di potenziali schiavi
- rapporto di lungo periodo                 - rapporto di breve periodo
- schiavi mantenuti a vita                     - schiavi usa e getta
- importanza delle differenze etniche    - irrilevanza delle differenze etniche
Le cause individuate per l’espansione di questo nuovo tipo di schiavitù sono sostanzialmente tre: 1) l’esplosione demografica che ha inondato di milioni di individui poveri i mercati del lavoro mondiali; 2) la globalizzazione economica, che rende possibile l’impiego dei capitali nei luoghi in cui la manodopera è a più basso prezzo; 3) il cambiamento economico nei paesi in via di sviluppo, che ha fatto crollare gli assetti tradizionali, lasciando spazio a corruzione e avidità estreme.
Individuati tali elementi, l’autore passa ad esaminare, con molta cognizione delle differenti situazioni, i vari ambiti geografici in cui la schiavitù oggi attecchisce e si sviluppa. Le nazioni su cui focalizza la propria attenzione sono Thailandia, Mauritania, Brasile, Pakistan, India; a parte il caso della Mauritania, dove continua ad esistere una forma di schiavitù “classica” (benché de iure abolita con ripetute quanto inapplicate leggi “abolizioniste” - si veda il report del Governo degli USA in proposito), negli altri paesi la schiavitù di nuovo tipo ha trovato un fertile campo nei tradizionali rapporti di sottomissione, soprattutto mediante il meccanismo del vincolo da debito: un individuo o una famiglia accettano un lavoro facendosi pagare una somma in anticipo. Da questo momento, per saldare il debito, lavoreranno gratuitamente (spesso ricevendo solo il cibo minimo per sopravvivere) per il proprio datore di lavoro – padrone, che avrà tutto l’interesse a fare in modo che il debito originario non venga mai annullato, profittando spesso dell’analfabetismo dei propri dipendenti-schiavi. A tale situazione di dipendenza si possono aggiungere la coercizione fisica, le violenze – sessuali o meno – sino alla soppressione dello schiavo non più affidabile. La cosa appare ancora più crudelmente assurda per il lettore, se si considera che nella gran parte dei casi intere famiglie vivono per generazioni in stato di schiavitù per un debito di poche decine di dollari, a volte ancora per meno.
Ci pare utile osservare più nello specifico alcune situazioni analizzate dall’autore.
Thailandia. La schiavitù presente in tale paese rientra nella categoria della schiavitù da debito (la forma di gran lunga più diffusa nel modo). In genere sono i genitori, soprattutto nella parte settentrionale del paese, a vendere le figlie ai bordelli delle città (spesso con finti contratti di impieghi più dignitosi), ricavando una somma per loro considerevole, che può permettere l’acquisto di apparecchiature HiFi o la tranquillità di un anno di viveri. A questo punto le ragazze vendute - in genere minorenni - sono vincolate ai loro proprietari, con il perverso meccanismo della remissione dei debiti ad alto tasso d’interesse, sino a che per vari motivi (spesso la contrazione dell’HIV) questi non decidano di rispedirle a casa. Violentate e percosse - e costrette al loro impegno anche dalla connivenza di un corpo di polizia corrotto -, per tutto questo tempo sono costrette, praticamente senza compenso, a compiacere a decine di clienti per giorno. Tutta la cultura thai è connivente a tale situazione: tanto la religione buddhista, per cui la donna è essere inferiore, quanto la cultura “laica”, profondamente maschilista, non trovano nulla da eccepire su tale prassi. Sia l’economia nazionale, che da tale commercio trae grandissimi profitti, sia il governo, che preme l’acceleratore sul turismo sessuale come fonte di guadagni, incoraggiano la pratica della schiavitù sessuale. Da ultima, l’industria internazionale del turismo sessuale incentiva tali patiche pubblicizzando le possibilità di acquisto di giovani schiave (da importare eventualmente nei paesi occidentali) per cifre irrisorie. Il boom economico degli anni ‘80 ha portato a tali commerci (invero già floridi nel paese) un’espansione enorme in Thailandia. La somma che Bales stima per il volume di affari “sessuali” (tra i quali quelli derivati dalla schiavitù costituiscono una base non indifferente) “supera di tredici volte il totale che la Thailandia ricava dalla fabbricazione ed esportazione di computer, una delle sue industrie più sviluppate, ed è denaro che si riversa sul paese senza alcun bisogno aggiuntivo di costruire fabbriche o potenziare infrastrutture” (p. 77).
Il caso dell’India, per molti aspetti diverso,  lascia invece intravedere alcune possibilità di uscita. Nel paese la schiavitù è presente in forma massiccia, e anche in questo caso diffusissima è la schiavitù di minori, o meglio di bambini: le fabbriche di fuochi d’artificio e di tappeti, ad esempio, si basano su questo tipo di manodopera. Ma anche l’attività agricola si fonda su questo modello, seguendo le linee della schiavitù da debito. Bales descrive la vita e il mondo di alcuni schiavi agricoli: come Baldev, contadino-schiavo nell’Uttar Pradesh, vincolato ad un debito che al momento della conversazione con l’autore ammontava a 25 dollari.  Ma qualche cosa pare stia cambiando. Il governo indiano negli ultimi due decenni ha infatti avviato un piano di riabilitazione degli schiavi da debito che, nonostante rallentamenti e corruzioni, sta cominciando ad ottenere alcuni risultati. “Quando gli impiegati del governo o dell’assistenza pubblica identificano dei casi di servitù da debito, esiste una procedura standard per passare alla loro registrazione. Una volta registrati, i debiti di questi lavoratori vengono immediatamente cancellati ed essi sono liberi di lasciare i loro padroni. Per metterli in grado di sottrarsi al rapporto di servitù, a ogni famiglia viene dato un finanziamento di 6250 rupie, spesso in terra o bestiame” (p. 213). Esistono poi organizzazioni governative preposte all’individuazione dei casi e all’assistenza, spesso affiancate da iniziative analoghe su iniziativa dei singoli stati. La situazione descritta da Bales a proposito dell’India lascia quindi trasparire qualche spiraglio di speranza. Quello che si sta creando – seppur con i fortissimi limiti dovuti all’analfabetismo, alla tradizione e alla corruzione –, più che un meccanismo giuridico, è quello di una formazione alla libertà che passa dall’alfabetismo e dalla scolarizzazione sino all’acquisizione della consapevolezza dei propri diritti. Molti aspetti del piano non hanno funzionato, ma questo “continua ad essere l’unico piano al mondo in grado di liberare dalla schiavitù da debito” (p. 217). Quando si riusciranno ad eliminare le sacche di corruzione e lo stato indiano riuscirà ad applicare massicciamente il “piano”, forse la schiavitù da debito declinerà con maggiore rapidità.
Cosa si può fare per fermare la schiavitù?. La parte finale del volume è dedicata agli strumenti con cui il lettore/cittadino/consumatore può contribuire alla lotta contro la schiavitù. Non si tratta di strumenti agevoli, considerato il carattere della nostra economia globalizzata, in cui il capitale “vola” dove il lavoro costa meno (e quale lavoro costa meno di quello schiavo?). Per il consumatore è ad esempio molto difficile, quasi impossibile, sapere se il prodotto che compera nel supermercato italiano è in realtà prodotto da manodopera schiava, tanto più se commercializzato da una multinazionale. Come è altrettanto difficile sapere se i propri fondi di investimento traggono profitto da imprese che possiedono aziende che subappaltano lavoro schiavo. I passaggi, i trasferimenti e le dislocazioni sono tante che non si riesce a risalire sino all’origine. Eppure, “agire sui profitti è la strategia chiave per porre fine alla schiavitù” (p. 227).
Un esempio molto valido del potere che il consumatore può far valere è quello della Rugmark Campaign per combattere la schiavitù dei bambini indiani nelle manifatture di tappeti. La campagna, avviata da alcuni attivisti e destinata ai consumatori, prevede che i tappeti delle aziende che non sfruttino i bambini (e che versino un 1% dei loro profitti per un piano di scolarizzazione nella regione) abbiano un marchio, il Rugmark, che ne certifichi la produzione con manodopera non schiava. Molti rivenditori negli Stati Uniti, Olanda e Germania importano solo tappeti con questo marchio e quindi slave-free.; alcuni rivenditori inglesi, invece, come Liberty e Selfridges, hanno rifiutato di rifornirsi di tappeti Rugmark (che naturalmente costano un po’ di più e garantiscono profitti minori). Ecco, il consumatore può in questo esercitare il proprio potere di scelta.
Ma spesso i prodotti del lavoro schiavo raggiungono le nostre case in maniera più subdola, trattandosi di materie prime e non di manufatti. Il carbone prodotto dagli schiavi brasiliani può servire ad alimentare la produzione di acciaio che poi viene utilizzato per la fabbricazione di pezzi di automobile esportati in seguito in varie nazioni: E’ evidente come sia complesso e quasi impossibile per un acquirente di un veicolo valutare se in tutta la catena produttiva si sia fatto uso di forza lavoro schiava. Occorre però sviluppare degli organismi che - al pari di quelli già operanti in campo ambientale - investighino su tali processi e ne diano informazione ai cittadini. L’azione dell’ONU in questo campo è troppo limitata dalle sovranità nazionali e dagli interessi dei singoli stati. Possono di più le organizzazioni non governative che hanno la finalità di tutelare i diritti umani, quali Anti-Slavery International, Amnesty International e Human Rights Watch, che agiscono più liberamente nell’istruire le indagini e nel diffonderne i risultati. Appoggiare tali organizzazioni è un modo concreto per combattere la schiavitù. L’iscrizione, ad esempio, ad Anti-Slavery International si può effettuare tramite internet (modulo d’iscrizione), prevede anche un livello gratuito di adesione, che consente di ricevere periodicamente (e, sottolineo ancora, del tutto gratuitamente) un report informativo delle attività dell’associazione e delle principali situazioni nevralgiche del pianeta. Per chi volesse, dallo stesso link, è possibile aderire come soci sostenitori o come volontari. L’appoggio ad Anti-Slavery International - anche quello minimo di iscrizione gratuita - significa anche appoggio ai gruppi di attivisti ad essa collegati che lottano nelle regioni in cui la schiavitù esiste e in cui spesso gli abolizionisti sono perseguitati.
Per concludere, i consigli di Bales per contribuire nella vita quotidiana alla lotta contro la schiavitù si riassumono principalmente in 5 punti.
            - 1. Appoggiare le organizzazioni antischiaviste (oltre a quelle già citate, al termine di questa scheda elencherò le principali).
            - 2. Informare e sensibilizzare sul problema. Anche se il mondo fa finta che la schiavitù sia un problema del passato occorre parlarne, diffondere i libri che ne parlano e far conoscere le organizzazioni che la combattono.
            - 3. Porre domande ferme e precise agli istituti di beneficenza, privilegiando le organizzazioni e le iniziative rivolte al terzo mondo (adozioni a distanza, lavoro missionario, assistenza medica, ecc.), che si impegnino nella lotta contro la schiavitù.
            - 4. Porre domande ferme e precise ai politici. Le sanzioni economiche sono l’arma migliore per sconfiggere la schiavitù. Quando i politici chiedono il vostro voto, chiedete cosa fanno o s’impegnano a fare in questa direzione.
            - 5. Porre domande ferme e precise al vostro ente pensionistico e ai vostri fondi comuni d’investimento. Se non ricevete risposte documentate che escludano che il vostro denaro venga investito in imprese che traggono profitti dalla schiavitù, portate altrove i vostri risparmi.
Da ultimo, dopo aver parlato di paesi e situazioni remoti, un brevissimo accenno alla schiavitù nel mondo “avanzato”. Si tratta di un fenomeno in rapidissima ascesa. Proprio recentemente, in seguito all’uscita del volume di cui abbiamo parlato sin’ora, Bales ha rilasciato alcune interviste a organi d’informazione europei (riprese, con non molto risalto, anche da alcuni quotidiani italiani) in cui si occupava per l’appunto dell’aumento negli ultimi anni della schiavitù in Europa: l’Italia risulta essere il paese comunitario con il più alto numero di schiavi, “impiegati” con grandi profitti soprattutto nel campo della prostituzione. Un motivo in più - se ce ne fosse bisogno - per impegnarsi in una lotta, anche qui, nelle nostre città, a difesa del diritto fondamentale, senza il quale tutti gli altri perdono di senso e suonano stonati.
Principali associazioni non governative che lottano nel mondo contro la schiavitù (oltre, naturalmente, a quelle già citate):
- Global Alliance against Traffic in Women, Center for the Protection of Children’s Rights e Task Force to End Child Sexploitation: concentrano l’azione soprattutto sulla prostituzione in Thailandia ed in particolare su quella dei bambini
- Sos Slaves e El Hol - organizzazioni per la liberazione degli schiavi in Mauritania (non ho trovato, comprensibilmente, home pages di tali associazioni)
- ECPAT Italia: lotta contro lo sfruttamento dei minori quale nuova forma di schiavitù
- Global Survival Network: lotta contro la tratta di donne slave in tutto il mondo
- South Asian Coalition on Child Servitude: coordina alcune centinaia di organizzazioni, soprattutto indiane, contro il lavoro minorile schiavo. Ha promosso programmi di riabilitazione per gli schiavi indiani.

3 commenti

  • 1 laxmi
    4 Settembre 2008 - 10:09

    buon giorno!!io sono una studentessa del liceo classico ariosto!! indirizzo scienze sociali, ho letto il suo libro!!lo ritengo molto interessante e pieno di informazioni su cui ci si può lavorare.
    arrivederci
    cordiali saluti

  • 2 Giangiacomo
    19 Ottobre 2009 - 16:54

    Complimenti! ottima recensione. Raramente capita di leggere un resoconto cosi’ esaustivo di un libro. Comunque mi e’ venuta voglia di leggerlo ugualmente.
    Cordiali saluti

  • 3 Kevin Bales: come combattere la schiavitù moderna « Scienze Umane
    19 Marzo 2012 - 20:38

    […] Tratto da http://www.democraziaoggi.it/?p=236 […]

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