La globalizzazione accresce o riduce la povertà?

21 Aprile 2012
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Gianfranco Sabattini

Per molti, la globalizzazione rappresenterebbe quanto di più negativo può essere ricondotto agli animal spirit che dominano il mercato; soprattutto quando questo è abbandonato allo spontaneismo dell’azione dei suoi principali attori. Secondo i “demonizzatori” della globalizzazione, l’internazionalizzazione delle economie nazionali avrebbe abbattuto le originarie “pareti” dell’organizzazione statuale e sarebbe stato così impedito agli Stati di continuare ad esercitare un benefico controllo sui mercati a vantaggio di tutte le comunità nazionali.
Contrariamente a quanto possono pensare i critici più duri e intransigenti della globalizzazione, un recente rapporto della Banca mondiale documenta gli effetti benefici di tale fenomeno. Come riferisce Moises Naim su “la Repubblica”, il rapporto evidenzia che, tra il 2005 e il 2008, la povertà si è ridotta notevolmente in diverse parti del mondo: in particolare nell’Africa subsahariana, nell’America Latina, nell’Asia e Nell’Europa orientale. E’ la prima volta, secondo Naim, che succede una cosa del genere, almeno da quando si è iniziato a redigere statistiche specifiche sulla povertà a livello mondiale.
Naturalmente ciò non vuol dire siano state rimosse definitivamente le condizioni di estrema indigenza che hanno pesato, e in molti casi continuano a pesare, sulla vita di molte persone prima che iniziasse il processo di internazionalizzazione delle economie nazionali. Si sa che la miseria estrema continua ancora ad affliggere la vita di milioni di individui; la situazione però, nel suo complesso, sia pure lentamente, migliora.
Ad emergere è quindi un quadro che evidentemente lascia ben sperare, ma che assolutamente non deve indurre ad abbassare la guardia. Il miglioramento che sembrerebbe trasparire dagli ultimi rilevamenti a cui si è accennato può e deve essere ulteriormente favorito e sospinto. In quest’ottica verrebbe da aggiungere che la lotta contro la povertà potrebbe essere affrontata con un’efficacia maggiore se i Paesi più industrializzati, con un’azione virtuosa, si trovassero concordi nello stabilire alcuni passi preliminari: ad esempio, quelli riguardanti la definizione di un “nocciolo duro” di diritti e doveri su cui fondare l’idea di una cittadinanza globale, l’offerta di una migliore giustizia internazionale e la riconduzione dell’interventismo statale, proprio del welfarismo, al rispetto continuo della dignità esistenziale dei cittadini del mondo.
Tutto ciò, ovviamente, implica un impegno ed una volontà della classe politica dei Paesi più industrializzati diversa da quella sinora mostrata. Nel senso che tali Paesi si sono giustamente impegnati ad approfondire e ad allargare il processo di internazionalizzazione delle economie, ma hanno trascurato aspetti tutt’altro che secondari relativi ad una sua regolazione condivisa.
Se si riuscisse ad avviare una governance del mercato globale all’insegna di un rinnovato equilibrio tra efficienza ed equità, dando spazio all’azione virtuosa prima accennata, sarebbe forse possibile accorciare il tempo che ancora ci separa da una riconduzione del problema della povertà entro limiti accettabili. Ma non solo. Si potrebbe anche sperare di ridare nuovo ossigeno alla politica, sottraendola così al rischio di un’emarginazione che molti sembrano invece auspicare. E’ immediato, in proposito, pensare, da un lato, a chi ha interesse a mantenere un laissez-faire senza regole e, dall’altro, a chi, criticando affrettatamente la classe politica per l’essersi lasciata “sfuggire” il mercato da un adeguato controllo, finisce in definitiva col palesare l’inguaribile pessimismo che unisce tanto chi demonizza la politica, quanto chi disprezza il mercato.

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