La sovranità degli Stati non c’è più. Chi comanda?

10 Giugno 2012
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Francesco Piccioni

Lo Stato non è più libero di decidere della ricchezza prodotta sul proprio territorio. Cosa rimane della democrazia se le scelte vengono imposte da soggetti lontani e imperscrutabili? Ecco l’analisi del Censis nella sintesi di Francesco Piccioni su Il Manifesto di giovedì scorso.

Non sono rimasti in molti a fare ricerca politica tenendo d’occhio la realtà sociale concreta. Il Censis è uno di questi pochi luoghi e sforna sempre un insieme di dati e riflessioni di livello. È così specialmente stavolta, con la ricerca Dove sta oggi la sovranità che apre un mese denso di appuntamenti scientifici coincidenti - forse non per caso - con il «giugno orribile» dell’Unione europea; quello in cui dovrà essere trovata una convincente via di superamento alla crisi oppure si presenterà alla porta il rischio di esplosione dell’eurozona.
Il tema della sovranità non è infatti per nulla astruso: si tratta di capire chi decide, su cosa, attraverso quali procedure e - se sbaglia - quali sanzioni. La democrazia, nel dopoguerra, ha fornito una risposta forse zoppicante, ma che - ricorda il Censis - ha tenuto insieme il paese «comprando a debito la pax sociale». In parole semplici: facendo crescere il debito pubblico più velocemente del Pil pur di «includere» una massa critica sociale tale da evitare lo scontro frontale tra interessi opposti (a partire da quello tra imprese e lavoratori). È il cuore della «cetomedizzazione» reddituale, del «taglio delle estreme» sul piano politico, della proliferazione dei «corpi intermedi» (sindacati, associazionismo, volontariato, ecc).
Mercati finanziari internazionali e istituzioni sovranazionali hanno però preso in mano - grazie alla crisi - il potere decisionale assoluto sulle scelte di politica economica: «ce lo chiedono i mercati» oppure «l’Europa» è la risposta standard di ministri senza carisma e fantasia. E convince sempre meno. In ogni caso, la «sovranità democratica» è scomparsa non solo per i paesi deboli, ma anche per quelli di prima fascia che partecipano all’Unione. Come l’Italia.
Non è una scomparsa solo concettuale. Si porta dietro la fine della «politica» come luogo dove «l’insieme dei soggetti che fanno parte della nazione» e «attraverso i meccanismi della rappresentanza» riuscivano almeno a «condizionare le scelte decisive della vita collettiva». L’«eterodirezione», sempre sospettata dietro le porte del potere, prende quindi un corpo reale, anche se distante e sordo. La «sovranità in fuga verso l’alto» è percepita da tutti i settori sociali e si intreccia con pregiudizi atavici radicati nel nostro paese, che oscillano alternativamente verso la «sensazione di impotenza» o l’«antipolitica». Un riflesso distorto di un fatto reale: i partiti non «compattano» più sul piano ideologico interessi sociali differenziati, trasformandoli in riforme, diritti, redistribuzione. Maneggiano soldi pubblici, e per questo sono odiati, ma non detengono più le leve del potere reale. Il governo Monti ne è la certificazione indiscutibile.
Eppure «il governo» è ancora, seppur di poco, indicato come il potere più rilevante rispetto alla vita materiale degli individui. Certo, l’«antipolitica» facilita curiose contrapposizioni fasulle. Un esempio: è più importante che i governanti siano «competenti» o «eletti dal popolo»? Ci cascano in tanti, ma meno di tutti i giovani e gli over 65; ovvero chi ha lo sguardo ancora fresco e chi ne ha viste di ogni. In mezzo, le due generazioni figlie della «fine delle ideologie», e quindi devote in modo spesso acritico all’unica rimasta.
Ma la «percezione di non contare nulla in politica» è il segnale di quanto sia grave la «rottura del nesso rappresentanza-decisione» Gli italiani si sentono mediamente molto più impotenti degli altri cittadini europei (Grecia a parte, ovviamente) e di questo fa le spese anche «l’europeismo». Giustamente definito come «una delle ultime retoriche di massa significative», cresciuto all’ombra del conflitto bipolare e sul ricordo devastante della guerra tra paesi vicini, l’europeismo è oggi un sentimento d’appartenenza debole. Più somigliante a un «ormai ci siamo, non possiamo uscirne», che non a un’adesione convinta.
È infatti certo per tutti che «la volontà sovranazionale si è imposta a seguito dell’operare di indicatori automatici che hanno imposto alla collettività determinate scelte, senza poterne discutere». Ma questo pone limiti seri a un’avanzamento deciso verso un’integrazione più cogente. «Eventuali nuovi strappi in avanti del processo unificatorio, oggi, non trovano consenso», perché giustamente associati a una serie di «riforme», «sacrifici», rinunce, che impoveriscono sia sul piano reddituale che su quello della cittadinanza.
Deve far riflettere, in questo senso, che il rimprovero principale rivolto «alla politica» dei decenni scorsi non sia (per il momento) il fatto di aver accettato l’unificazione europea, ma nel non averla «negoziata abbastanza». Nell’aver insomma rinunciato a esercitare un ruolo più deciso e «protettivo».
Tra percezione e realtà, in questioni di così grande dimensione, lo scarto può essere grandissimo. E anche legittimo. Certo è che se si condivide - come bisogna fare - il giudizio sulla storia italiana del dopoguerra come frutto di un «lungo e vero compromesso sociale; e se quel «meccanismo si è interrotto, a cominciare dalla capacità di dividere la torta in modo percepito come equo e inclusivo per tutti», allora i problemi di «tenuta sociale» che ci stanno davanti sono parecchio pesanti. Difficile passare indenni attraverso una «partita giocata tutta sul meno, sul ridurre, su una decrescita tutt’altro che virtuosa». Dove l’«equità» è solo una parola detta spesso per accompagnare una sottrazione forzosa di reddito e diritti. Di «sovranità democratica».

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