Colpo ai lavoratori, e violare le regole sarà più facile

1 Luglio 2012
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Rita Sanlorenzo


E’ importante questa riflessione, apparsa su Il Manifesto di giovedì, di Rita Sanlorenzo, giudice del lavoro presso la Corte d’appello di Torino, perché sulla controriforma Fornero ci offre un punto di vista di chi nelle aule di giustizia deve applicare la nuova disciplina.
 

Il governo dei tecnici porta a segno l’obbiettivo dell’approvazione della riforma del mercato del lavoro: nella quasi totale assenza di opposizione sociale, centro destra e centro sinistra uniti esprimono la loro fiducia sul testo legislativo, già «autorevolmente» definito una boiata e a cui sin d’ora si dice dovrà «tempestivamente» mettersi mano per poterlo migliorare. Chissà se superato il determinante traguardo dell’approvazione europea, si attiverà la volontà di rimediare ai tanti difetti e alle approssimazioni che il testo contiene: ma d’altra parte, vista l’ispirazione fondamentale della legge, c’è solo da temere da una ripresa dell’attività riformatrice, sorda sin qui ai tentativi di svelare l’assoluta incoerenza di alcune «parole d’ordine» di cui si fanno forti i suoi sostenitori.
Affermare, come è stato fatto, che l’intervento sull’art. 18 dello Statuto è giustificato - anche moralmente - dalla necessità di contrastare l’odioso dualismo del mercato del lavoro tra garantiti e non garantiti, ovvero tra vecchi e giovani, innanzitutto è un pensiero figlio della strategia con cui si sta combattendo la «Lotta di classe» di cui scrive Luciano Gallino, per cui vince chi riesce a spaccare il fronte della controparte. In realtà il dualismo del nostro mercato del lavoro è stato prima tollerato, e poi addirittura incentivato, mettendo a disposizione dei datori di lavoro un fenomenale armamentario contrattuale tra cui scegliere di volta in volta, tra le tante, la formula di precariato più conveniente e meno rischiosa (perché meno garantita).
Al punto in cui siamo, sembra ovvio nel dibattito pubblico ricollegare alla titolarità di diritti una condizione di privilegio, che rappresenta un costo per tutti ed è quindi necessario abbattere per uscire dalla crisi: se ciò porterà del bene ai meno garantiti, questo, per vero, non lo può dire con sicurezza nessuno. Intanto, di lì si riparte, dall’abrogazione delle difese più efficaci e significative (anche su un piano simbolico) della dignità del lavoratore, quelle che di fatto consentono la possibilità di partecipazione «all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese», come prevede l’art. 3 della nostra Costituzione.
L’art. 18 dello Statuto, norma di esemplare rigore e nitore, viene fondamentalmente stravolta non attraverso una diversa previsione delle causali giustificatrici del licenziamento, che restano quelle: lo slogan «licenziamenti più facili» è un altro pezzo della stessa mistificazione, perché licenziare resterà esattamente difficile (o piuttosto facile, visto il numero di posti di lavoro persi in questi anni) come prima.
La riforma interviene invece sul piano delle sanzioni del licenziamento intimato in violazione di legge, lasciando solo uno spazio residuale, e di difficile identificabilità da parte dell’interprete, per la reintegra, misura per eccellenza capace di sanare lo strappo alla regola, riportando la situazione allo status quo. Licenziare non sarà più facile, sarà semplicemente meno oneroso violare la legge: non è differenza da poco, soprattutto se consideriamo che la crisi in cui ci dibattiamo per molti versi è anche crisi di valori, e di riconoscimento della generalità dell’obbligo al rispetto delle regole. Quale segnale può derivare dalla modifica legislativa?
Spetterà poi al giudice districarsi fra la liquida consistenza delle ipotesi introdotte dalla riforma (si pensi alla sfumatura che intercorre tra l’illegittimità del licenziamento per mancanza di giustificato motivo oggettivo, e quella per la «manifesta insussistenza» dello stesso: questione di apparenza, o poco più, tra cui però corre la differenza tra il diritto a riprendere il proprio posto di lavoro, e quello a percepire solo un risarcimento economico). Questione problematica sul piano tecnico, certo, ma questo è il meno: perché come ha scritto Silvia Nicolai su il manifesto del 26 aprile, il giudice del lavoro non potrà non patire, come d’altronde da tempo patisce, di quel disorientamento che deriva dal «mutamento conflittuale e sotterraneo dei valori della convivenza», e sostanzialmente dalla progressiva perdita di un riferimento comune, quello che ci deriva dalla nostra Costituzione, che ha ben chiara la priorità della tutela delle posizioni deboli nel lavoro.
Alla fatale, grave incertezza degli orientamenti decisionali, si sommerà ben presto la disillusione a proposito dell’accelerazione delle procedure: obbiettivo più che condivisibile, ma perseguito attraverso la fissazione di termini processuali solo facoltativi per il giudice, e, ciò che è più grave, con l’introduzione di una duplicazione obbligatoria del processo di primo grado, articolato in una prima fase d’urgenza e poi di una successiva opposizione. Un raddoppio secco del carico processuale, che, a parità di risorse, segnerà l’affossamento di ogni ambizione.
Torna in definitiva il postulato per cui la strada della limitazione dei diritti deve passare attraverso l’indebolimento e la delegittimazione del ruolo del giudice. Che si vuole meno «fazioso», si dice, ma che in realtà viene sospinto verso una progressiva perdita di consapevolezza, secondo un modello di fedele e timoroso esecutore della contingente volontà della politica. Ci resta la stella polare della Costituzione, rafforzata dai principi di derivazione europea, primo fra tutti quello del divieto di discriminazione (a cui si è appellato anche il giudice di Roma per le assunzioni di Pomigliano): la sfida è riuscire a tenere la rotta.

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