Ricordo di Emanuele Sanna

30 Ottobre 2012
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Andrea Raggio

Ricorre nei prossimi giorni il trigesimo della morte di Emanuele Sanna. Ecco un ricordo di Andrea Raggio che lo ha seguito fin dagli inizi della sua militanza nel PCI e dell’impegno istituzionale.


 

La vita politica di Emanuele Sanna era animata da due grandi passioni: la buona Sanità e la buona Autonomia. Il suo interesse alla Sanità era non solo professionale ma specialmente politico. Il suo punto di riferimento erano le persone in quanto utenti e in quanto cittadini. L’assistenza sanitaria era allora molto carente, parlo degli anni  ’60 e ’70, soprattutto a danno dei più deboli e meno difesi. Gli ospedali erano vecchi e fatiscenti. La politica e l’organizzazione sanitaria erano mortificate dal clientelismo e condizionate dagli interessi dei privati, e tutto ciò pesava negativamente sulla vita cittadina e sul funzionamento delle istituzioni. Emanuele conosceva bene questa realtà e le magagne che nascondeva. Quando nel 1979 fu eletto in Consiglio regionale io perciò, allora presidente del gruppo comunista, fui molto contento. Perché era un giovane che veniva far parte di un gruppo giovane (era stato notevolmente rinnovato nelle precedenti elezioni), aveva già maturato un’importante esperienza amministrativa e arricchiva il nostro lavoro in un campo nel quale eravamo deboli. Quando alla fine del 1980 mettemmo mano alla formazione della prima giunta di sinistra e a designarne gli assessori, il suo nome fu uno dei primi della lista. La Giunta si sarebbe retta sull’appoggio esterno del Partito repubblicano, sostegno che appariva sin dall’inizio precario. Per dare il segno del cambiamento dovevamo, quindi, realizzare risultati importanti sin da subito, perciò affidammo a ogni assessore un obiettivo significativo da realizzare in tempi brevi. Con Emanuele fummo perentori: devi aprire il nuovo ospedale, fa quel che vuoi, barricati in cantiere ma non mancare l’obiettivo. Non se lo fece ripetere. L’ospedale fu aperto giusto in tempo, passò qualche settimana e il Partito repubblicano tolse l’appoggio, dopo una riunione svoltasi a Roma in piazza del Gesù, dove stavano le sedi sia della Democrazia cristiana sia della massoneria. 
Emanuele Sanna era un autonomista comunista. Mi spiego. Nel PCI sardo si sono sempre intrecciate due anime: quella autonomista comunista e quella comunista autonomista. La differenza non è una sfumatura. Subito dopo la guerra fu Togliatti a convincere il patito comunista in Sardegna ad abbandonare la visione classista – l’Autonomia come via sarda al socialismo - e a sposare quella democratica – l’Autonomia strumento di unità del popolo sardo per il suo riscatto. Ma l’anima classista ogni tanto riaffiorava. L’autonomismo di Sanna era solido, radicato nella civiltà e nella cultura contadina di quella Samugheo – Sardegna nella Sardegna – nella quale era nato, ed era andato saldandosi con la cultura operaia e l’ispirazione socialista nella sua esperienza cagliaritana fatta nel movimento universitario, nel sindacato e nel partito. Per Lui l’Autonomia non era rivendicazionismo querulo, ma assunzione di responsabilità e conquista. Anche per il partito auspicava una forte autonomia rispetto alla direzione nazionale. Evocava una sinistra sarda federata con Roma attraverso un chiaro patto. Avvertiva che erano finiti gli anni nei quali i dirigenti nazionali - da Togliatti a Giorgio Amendola, da Pietro Ingrao a Paolo Bufalini, da Alfredo Reichlin a Luciano Lama, oltre ovviamente a Enrico Berlinguer, - venivano spesso nell’isola e davano lezioni di politica regionale perché conoscevano la nostra storia e la nostra realtà. Negli ultimi anni i dirigenti erano altri e le loro visite erano sempre più rare e sempre più limitate a questioni organizzative e a candidature. Nella scelta del candidato presidente alle regionali del 2004 l’intervento della direzione fu pressante a favore di Renato Soru, non solo estraneo ma polemico con i DS, contro altri possibili candidati del partito, tra questi Emanuele Sanna. Il quale rimase ovviamente amareggiato, ma non lo diede a vedere, si comportò anche in quell’occasione da signore. Ma quell’intervento inconsueto nei rapporti tra direzione nazionale e gruppo dirigente sardo lasciò certamente in lui qualche traccia.
Nel PCI non c’erano correnti, era però sempre vivo il dibattito su differenti accentuazioni. Emanuele, come molti di noi, era al tempo stesso ingraiano e amendoliano. Ingrao infondeva entusiasmo e illuminava l’orizzonte, Amendola educava al realismo politico. Nella seconda metà degli anni ’80 il suo impegno, anche come Presidente del Consiglio regionale – la Giunta era presieduta da Mario Melis - fu diretto a tentare di avviare una nuova fase della politica di Rinascita per adeguarla ai cambiamenti interventi in Sardegna e nel mondo. Io allora era parlamentare europeo e il mio rapporto con la politica regionale era limitato. Durante le ferie veniva spesso a trovarmi e coglievo l’occasione per informarmi. Quando nel 1994 lasciai il Parlamento europeo, trovai difficoltà a reinserirmi nella vita politica regionale e mi accorsi che anche per Emanuele non era facile continuare. Tutto era cambiato. Il PCI non c’era più, la sua eredità era stata affidata al PDS, nel quale era confluita anche buona parte dei socialisti sardi. La cultura della Rinascita era stata archiviata e la vitalità della democrazia impoverita. Imperavano il nuovismo, il decisionismo, il presidenzialismo e la personalizzazione della politica. Si era andata affermando un’altra visione del partito, un altro stile. Fare politica comportava anche qualche cedimento al correntismo e al protagonismo dilaganti. E’ la critica che gli è stata rivolta, trascurando però i condizionamenti del nuovo quadro politico. Poi sono venuti gli anni della fondazione del Partito democratico. Emanuele sosteneva la linea della mozione di maggioranza, rivolta ad accelerare i tempi della fusione. Io, invece, pur condividendo in pieno la prospettiva di un grande Partito democratico, temevo che i tempi brevi comportassero il rischio di una “fusione fredda”. La preoccupazione riguardava in particolare la Sardegna, dove si trattava di fondere partiti con storia – l’ex partito comunista e l’ex sinistra democristiana – con partiti senza storia, quello di Soru. E la fusione in Sardegna è stata non solo fredda ma pasticciata e le conseguenze ancora oggi condizionano il PD. Emanuele ha scelto di continuare a fare la sua parte nel PD, io ho preferito quella di democratico senza partito.            
Aveva vivo il senso umano della lotta politica, sentimento estraneo ai rottamatori. Rispettava gli avversari, stimava quelli che meritavano e con i compagni era sempre affettuoso. Aveva una visione dinamica della politica, privilegiava l’iniziativa sulla propaganda. Recentemente mi aveva telefonato: vengo a trovarti. Erano mesi che non lo incontravo. Veniva a trovarmi quando doveva dirmi cose importanti. Stiamo organizzando, mi disse, un’iniziativa in ricordo di Enrico Berlinguer. Pensiamo anche a una tavola rotonda. Potresti essere uno dei relatori? Io fui molto contento, perché ogni impegno che mi veniva chiesto mi aiutava a vivere politicamente e, soprattutto, perché si trattava di Berlinguer, che avevo conosciuto sin dal 1957, quando era vice segretario regionale, e poi in tutti gli anni della Rinascita durante i quali, da dirigente nazionale del partito, aveva seguito le vicende sarde costantemente ma con discrezione, senza interferire nell’autonomia del gruppo dirigente regionale. L’iniziativa ebbe successo, buoni interventi, molta gente, compagni che non vedevo da anni. Congratulandomi con lui osservai che tuttavia anche nell’occasione il tema del rapporto di Berlinguer con la Sardegna era stato trascurato. Hai ragione, ammise. Bisogna dedicare un’iniziativa a questo tema, e già pensava a come e a quando. Non smetteva di pensare a nuove iniziative. Sapeva che in politica non si può stare fermi, bisogna sempre camminare, camminare anche quando è faticoso, camminare senza mai distogliere lo sguardo dall’orizzonte. Io così lo ricordo.  

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