Alcoa: lavoratori cornuti e mazziati

5 Novembre 2012
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 Andrea Pubusa

Ormai in Italia non si produce più neppure alluminio. A P. Vesme sono state spente le due ultime celle dell’Alcoa, l’ultimo stabilimento d’alluminio nel nostro Paese. L’agonia è stata lenta, ma inesorabile. Altri 500 lavoratori a spasso. Nel Sulcis si aggrava la disperazione. In realtà,  era già chiaro fin dall’inizio che sarebbe finita così. D’altronde, da un presidente del Consiglio che considera l’intervento dello Stato in economia il peggiore dei mali, cosa ci si poteva aspettare? Per Monti le cose si aggiustano da sé. E’ la mano invisibile del mercato a mettere le cose a posto. Sarà questa mano miracolosa, per vie misteriose, a ridare ai lavoratori il lavoro e al Sulcis livelli accettabili di occupazone. Il ministro dello Sviluppo Economico Corrado Passera aveva assicurato di voler curare con particolare attenzione la filiera dell’alluminio. Ma è stata una sceneggiata, al pari dell’interessamento di vari gruppi, che in realtà non c’è mai stato. Non si comprende, del resto, perché dovrebbe riuscire ad altri ciò che non è riuscito ad  Alcoa. L’unico fatto nuovo poteva essere un intervento politico deciso. Ma si tratta di cose d’altri tempi. Il liberismo, ormai verbo di tutti, neppure contempla un’opzione di questo tipo. D’altra parte, l’UE è pronta a sanzionare come “aiuto di stato” qualunque intervento di sostegno. E senza sostegno (abbattimento dei costi dell’energia) la sorte dell’Alluminio a P.Vesme è irrimediabilmente segnata.
Il paradosso di questa vicenda - come di altre simili - è che ai lavoratori è  vietato anche manifestare. Non è stato “autorizzato” il corteo a Roma, che si sarebbe dovuto svolgere martedì. Ma i cortei non vanno autorizzati. La Carta costituzionale pone a carico degli organizzatori solo l’onere del preavviso. Il divieto può essere fondato solo su comprovati motivi di incolumità e sicurezza pubblica. Si deve cioè essere in presenza di una situazione obiettiva, che può mettere in pericolo la sicurezza e l’incolumità delle persone. Ma qui è ben difficile affermare che esista questa situazione. E comunque, la motivazione addotta dalla Questura non indica alcun fatto che giustifichi una limitazione della libertà di manifestazione così incisiva. I lavoratori così vengono privati non solo del diritto al lavoro, ma anche di quello di manifestare. Un esempio conclamato del fatto che la Costituzione materiale in Italia è ormai mille miglia lontana da quella formale e che gli organi costituzionali, primo fra tutti il governo, anziché applicarla e difenderla, ne sono, in realtà. i più veri eversori.
Ciò che spaventa poi è che non c’è all’orizzonte alcun progetto alternativo, alcuna ipotesi di riconversione. Il Sulcis ha conosciuto molti momenti di crisi,  dopo il declino dell’industria estrattiva. Ma c’erano piani di riconversione. E c’era mobilitazione di partiti e sindacati. C’era lotta di popolo dietro di loro su obiettivi chiari.  L’alluminio a P. Vesme deciso circa 40 anni ad opera  delle Partecipazioni Statali è una parte di questo progetto e di queste battaglie. Da altre parti si realizzarono altri insediamenti. La politica dei poli industriali, si obietterà, creava insediamenti slegati dal territorio e dall’economia del luogo. Ed è vero. Ma occorre ammettere,  che, pur con tutti i limiti, primo fra tutti la lotta fra i grandi gruppi, quegli insediamenti erano espressione di un’idea non banale: provocare lo sviluppo installando al Sud settori strategici dell’economia, dalla chimica all’alluminio alle fibre. Ora, invece, queste produzioni strategiche lasciano l’Italia, nel disinteresse del governo. E mentre il Paese affonda si assiste ad un dibattito politico in cui tutto è presente fuorché le sorti e il futuro della polis.  Quanta  sofferenza ci vorrà ancora, prima che si inizi a voltar pagina? Quanto sfascio ancora prima di capire che il liberismo in economia e i personalismi in politica non hanno altro da offrire?

1 commento

  • 1 Gabriele Ainis
    8 Novembre 2012 - 13:27

    Gentile Pubusa,
    per una volta sarei d’accordo con Lei (salvo un particolare, non irrilevante).
    È vero, l’Alluminio chiude nel disinteresse generale.
    È vero, pur con i limiti del modello (ma i modelli vanno storicizzati) i poli industriali al sud ebbero un effetto benefico sulle economie meridionali.
    È vero, sarebbe necessario un intervento pubblico per la difesa non solo dell’occupazione ma anche di un’idea condivisa di indirizzo industriale.
    Dissento invece, almeno in parte, sull’individuazione dei responsabili riguardo i mancati interventi. Non solo il governo centrale, che deve essere coinvolto nella ricerca di una soluzione, ma prima di tutto la classe dirigente locale e non (ma anche, direbbe Veltroni) il solo Cappellacci.
    Senza un serio mea culpa da parte nostra, della nostra classe dirigente degli ultimi trent’anni, si corre il rischio di restare dove siamo. Parrebbe proprio (la invito a riflettere sul piano di Tore Cherchi) che l’incapacità sia prima di tutto locale. Se neppure noi siamo in grado di proporre soluzioni per il nostro futuro, perché mai dovrebbe esserlo il governo?
    La ringrazio comunque per aver scritto degli avvenimenti del giorno dei morti: la gente normale accende i lumini, noi spegniamo una cella di elettrolisi. Stranezze sarde.
    Cordialmente,
    Gabriele Ainis
    Torino

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