(E)lezioni americane

18 Novembre 2012
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Gonario Francesco Sedda

 

1. Quasi tutti i giornalisti e i commentatori non hanno prestato molta attenzione al carattere più o meno partecipativo delle elezioni negli Usa e in particolare in questa ultima del 2012.
Anche Marco D’Eramo – che nel passato non ha mai trascurato di segnalare il problema – nel quotidiano Il manifesto (08/11/2012) questa volta insolitamente ha scritto: « …si è dimostrata vera solo in parte la previsione di una forte astensione: se alla fine si saranno recati alle urne 125,6 milioni di statunitensi (compresi gli 8,2 della Florida), l’affluenza sarà stata inferiore di 7 milioni a quella del 2008 (quando furono espressi 133 milioni di suffragi), ma solo del 5,6%». Nel resto della stampa e nei notiziari televisivi mancano dati sulla Popolazione in età di voto (VAP, Voting-Age Population), sulla Popolazione avente diritto al voto (VEP, Voting-Eligible Population) e quelli più aggiornati sui voti espressi, ma soprattutto mancano le serie storiche di tali dati che permettono di avere una visione sistemica e di individuare le tendenze del processo elettorale e democratico negli USA. Si potrebbe scoprire che a partire dalle elezioni del 1972 fino a quelle del 2000 la “percentuale dei voti espressi dagli aventi diritto” (VEP Turnout Rate, escluse le schede bianche e nulle) ha oscillato intorno al 55% e che solo alle elezioni per il secondo mandato di G. W. Bush (60,1%) e a quelle per il primo di B. Obama (61,6%) ha ripreso a salire. Ma se prendiamo in considerazione la “percentuale dei voti espressi rispetto alla popolazione in età di voto” (VAP Turnout Rate, escluse le schede bianche e nulle), che è quella che rende più appropriato il confronto con la realtà italiana, nello stesso periodo (1972-2000) l’oscillazione è intorno al 52-53%.
Aldilà della modalità di calcolo, in entrambi i casi i dati mostrano di per sé che dal punto di vista partecipativo la democrazia americana non gode buona salute. Ad aggravare la malattia contribuisce fortemente il sistema elettorale “a maggioritario secco” (si prende tutto o niente) che, proprio per la non esaltante partecipazione al voto, porta all’elezione presidenziale col trionfo di una “minoranza bulgara”.
2. Infatti nella migliore situazione il presidente vincitore viene eletto con i voti di un terzo (33%) degli “aventi diritto” (VEP), ma generalmente con una percentuale più bassa, anche tra il 20 e il 25% (tra un quinto e un quarto).
Così, nel 2008 B. Obama con il suo 52,9% di voti validi e una partecipazione degli “aventi diritto” pari al 62,2%  ha ottenuto il consenso del 32,6% della popolazione con diritto di voto (VEP) e solo quello del 30,0% della popolazione in età di voto (VAP).
Così, nel 2004 G. W. Bush con il suo 50,7% di voti validi e una partecipazione degli “aventi diritto” pari al 60,7% ha ottenuto il consenso del 30,5% della popolazione con diritto di voto e solo quello del 28,1% della popolazione in età di voto.
Così, nel 2000 (elezioni con tre candidati di peso federale) G. W. Bush con il suo 47,9% di voti validi e una partecipazione degli “aventi diritto” pari al 55,3% ha ottenuto il consenso del 26,0% della popolazione con diritto di voto e solo quello del 23,9% della popolazione in età di voto. E se il pasticcio della Florida si fosse risolto con la vittoria di Al Gore (48,4% di voti validi), il suo consenso sarebbe stato uguale a quello di G. W. Bush.
Si è visto che a partire dalle elezioni del 1972 fino a quelle del 2000 la “percentuale dei voti espressi rispetto alla popolazione in età di voto” (VAP Turnout Rate, escluse le schede bianche e nulle) oscilla intorno al 52-53%. Ciò ha come conseguenza che il consenso elettorale può scendere sotto il 25% per il presidente vincente.
Ma la criticità della democrazia americana si accentua nelle elezioni che non coincidono con quelle presidenziali, cioè le elezioni di medio termine (Camera, Senato, Governatori) o quelle per le amministrazioni locali.
Così nel 2010 su scala federale le percentuali di partecipazione sono 41,0% (VEP) e 37,8% (VAP). Ma in alcuni Stati i dati sono singolari: New York col 35,5% (VEP) e 30,8% (VAP) rispetto a 59,0% e 51,4% delle presidenziali del 2008; Ohio col 45,0% (VEP) e 43,6% (VAP) rispetto a 66,9% e 65,1% delle presidenziali del 2008; Texas col 32,2% (VEP) e 26,9% (VAP) rispetto a 54,1% e 45,5% delle presidenziali del 2008.
Si è molto parlato del degrado politico e democratico in Sicilia dopo le elezioni regionali del 2012 con il suo 47,4% di voti validi, ma la “normalità” delle elezioni americane di medio termine mostra un quadro peggiore. Solo nove Stati su 50 fanno meglio della Sicilia se il confronto ha come riferimento la popolazione in età di voto (in maggiore coerenza con i dati italiani, benché senza una completa sovrapponibilità). E anche se “più favorevolmente” si prende come riferimento la popolazione con diritto di voto, solo undici Stati su 50 fanno meglio della regione italiana in questione. Insomma, dal punto di vista della partecipazione elettorale l’80% (più o meno) degli Stati americani nelle elezioni di medio termine (2010) fa peggio della Sicilia. Il Distretto di Columbia, inoltre e in particolare, mostra la prestazione più scadente: 28,8% (VEP) e 26,2% (VAP) rispetto a 61,5% e 55,2% delle presidenziali del 2008.
3. Ma che diavoleria è questa storia di VEP e di VAP? Negli USA non basta (avendo 18 o più anni) essere statunitensi o immigrati legali (già residenti e demograficamente accertati) per avere il diritto di voto, ma occorre anche la cittadinanza. Alla popolazione in età di voto (VAP) viene sottratta quella parte di potenziali elettori che pur vivendo e lavorando legalmente negli USA non hanno “ancora” la cittadinanza. Non hanno diritto di voto neppure gli americani che sono in prigione, quelli che sono in libertà vigilata e metà di quelli che sono liberi sulla parola. Quel che rimane costituisce la popolazione con diritto di voto (VEP). È chiaro che il valore di VAP è maggiore del valore di VEP. Quindi, poiché nel calcolo delle percentuali di partecipazione al voto i due aggregati figurano al denominatore, i valori VAP (con denominatore più grande) sono più bassi e viceversa quelli VEP (con denominatore più piccolo) sono più alti. In USA le statistiche riportano entrambe le percentuali di partecipazione al voto; ma vi è anche chi si sforza di trovare nei più alti valori VEP una smentita riguardo al declino della partecipazione al voto che sarebbe il risultato di calcoli inappropriati (“the much-lamented decline in voter participation is an artifact of poor measurement”). Tuttavia è proprio utilizzando gli stessi dati di chi parla di “calcoli inappropriati” che si deduce una criticità partecipativa nel periodo 1972-2000 sia con una oscillazione intorno al valore VEP del 55% sia con una oscillazione intorno a valore VAP del 52-53%. La differenza tra i due valori può essere d’appoggio per argomentare su una minore velocità del declino partecipativo non per negarlo. Nel periodo 1952-1968 i valori VEP oscillano intorno al 63% e quelli VAP intorno al 62%. Le ultime tre elezioni (2004, 2008, 2012) non sono ancora sufficienti per individuare una tendenza.
4. Nelle ultime elezioni del 2012 B. Obama con il suo 50,6% di voti validi e una partecipazione degli “aventi diritto” pari al 56,5% ha ottenuto il consenso del 28,6% della popolazione con diritto di voto e solo quello del 26,0% della popolazione in età di voto. Rispetto alle elezioni del 2008 la partecipazione degli “aventi diritto” è calata di 5,1 punti (dal 61,6 al 56,5%). Se sulla base dei dati a disposizione (2000, 2004, 2008) si stima una media di 1,5 milioni di schede bianche o nulle, il totale degli “aventi diritto” che non hanno votato è di 94 milioni rispetto ai 80,5 delle elezioni del 2008. La “grande nazione” dei NON-VOTANTI è cresciuta di una quantità intorno ai 13 milioni sia per l’aumento (circa 6 milioni) della popolazione con diritto di voto sia per la diminuzione (-7,2 milioni) dei voti validamente espressi. L’urgenza del lavoro giornalistico ha spinto Marco D’Eramo a valutare il peso dell’astensione nelle ultime presidenziali USA con l’esclusiva attenzione sulla diminuzione dei voti validamente espressi sottintendendo erroneamente la costanza della popolazione con diritto di voto. Inoltre il suo “solo il 5,6%” in diminuzione (proporzionalmente vicino e addirittura più grande della differenza percentuale VEP che è -5,1) risulta mal pesato fuori dalla serie dei dati storici. In realtà quel 5,1% in meno riporta la percentuale di partecipazione VEP (56,5%) nuovamente vicina al valore di oscillazione (55%) del periodo che va dalle elezioni del 1972 a quelle del 2000, collocandola in quella zona di criticità di cui si è discusso sopra. Non si può dire in modo conclusivo se dopo due risultati “singolari” in salita (2004, 2008) questo ultimo confermi la pluridecennale tendenza al declino partecipativo; ma non si può nemmeno dire che resti confermata certamente una rinnovata vitalità democratica del processo elettorale negli USA “solo” grazie a quei due medesimi risultati.

FONTI: Quasi tutti i dati utilizzati direttamente o per le necessarie elaborazioni sono reperibili in
http://www.presidency.ucsb.edu/elections.php e http://elections.gmu.edu/index.html.

 

 

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