Onore ai martiri di Palabanda, e poi?

25 Novembre 2012
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Gianfranco Sabattini

Pubblichiamo uno stralcio di un ampio articolo del Prof. Sabattini, riservandoci la pubblicazione della parte restante nei prossimi giorni.

Il significato sociale del martirio si identifica nel legame ideale di continuità che le gesta dei Martiri possono permettere di stabilire con i vivi delle epoche successive. La sopravvivenza ideale delle buone azioni dei Martiri si trasforma in oggetto di culto, che i vivi tramandano di generazione in generazione, adottando il martirio come paradigma di riferimento delle azioni di quanti, di volta in volta, intendano raggiungere obiettivi il cui perseguimento è stato la causa del sacrificio originario. Si può quindi affermare che il culto dei Martiri possa realmente aspirare ad acquisire il significato di messaggio sociale e politico-irredentista, alla sola condizione che chi lo evoca, come fa il movimento minoritario “Martiri di Palabanda”, abbia tutte le “carte in regole” per poter realizzare concretamente gli obiettivi perseguiti.
La semplice evocazione dei propri eroi e l’intestazione di una Piazza e di un Largo della città di Cagliari ai loro nomi, anche se in sostituzione dei nomi di coloro che sono considerati i reali responsabili del martirio e dello stato di arretratezza attuale del sistema sociale ed economico della Sardegna, in assenza di solide “basi tecnico-politiche” ha assai poche possibilità di contribuire all’avvio di un’età irredentista della Sardegna. Le basi tecnico-politiche sono espresse dalle capacità di una “soggettività collettiva” di trasformare l’organizzazione istituzionale ed economica della propria comunità, al fine di assicurare ad essa la liberazione da ogni forma di condizionamento delle autonome aspirazioni a realizzare nuove condizioni del “vivere insieme”.
Il dibattito in corso su questo Blog corrisponde al generoso e commovente desiderio di ricuperare alla memoria dei sardi il ricordo dei “Martiri di Palabanda”, che la storia dei vincitori è riuscita ad affievolire; si deve tuttavia osservare che coloro che guidano e coordinano questo tentativo mancano di realismo. Ovviamente, ciò va detto con tutto il rispetto dovuto agli organizzatori del movimento di popolo che di recente ha organizzato una dimostrazione davanti al Palazzo del Consiglio regionale per chiedere, sia pure con l’intento di acquisire una certa visibilità, le dimissioni di tutti gli attuali consiglieri regionali. La mancanza di realismo infatti li porta ad omologarsi alla “galassia” di tutti i movimenti indipendentisti meridionali. Come questi ultimi gli indipendentisti sardi non riescono ad andare al di là della pura e semplice protesta, non riuscendo ad essere portatori di un progetto credibile sul piano istituzionale, sociale ed economico; con ciò mancando di cogliere le vere e profonde ragioni dello stato di disagio politico in cui si conserva ancora oggi il sistema sociale della Sardegna.
Che fare, allora? Innanzitutto, occorrerebbe un’obiettiva valutazione dei motivi del fallimento della politica autonomistica del dopoguerra, tenendo conto, non solo delle responsabilità della società politica regionale, ma anche dei deficit storici della società civile per non essere mai riuscita ad esprimere un agente collettivo, autenticamente autonomo, in grado di assumere la leadership di un processo di trasformazione del sistema sociale. Una leadership, è il caso di sottolinearlo, che non doveva identificarsi con una qualche forma di “leaderismo di un uomo solo al comando” o di un qualche “gruppo dominante”; doveva invece servire da paradigma di riferimento per il perseguimento di obiettivi largamente condivisi dalla società civile regionale. Una presa di coscienza di tale natura sarebbe stata utile a individuare in termini univoci e condivisi il “sentiero riformista” istituzionale ed economico che poteva essere percorso per portare la Sardegna ad inserirsi, all’interno di un rinnovato patto nazionale, in una libera prospettiva di crescita e di sviluppo.
Quanto sinora detto significa che i gruppi minoritari, che mostrano d’essere gli unici consapevoli del reale stato di crisi in cui versa ancora l’Isola, vanno presi sul serio, sperando che il dibattito da essi stimolato serva ad indirizzare la loro azione verso obiettivi meno simbolici e molto più concreti. In che modo? Per esempio, anziché pretendere le dimissioni dei componenti il Consiglio regionale, i gruppi minoritari potrebbero promuovere ed organizzare la riedizione di Congresso del Popolo Sardo, replicando quello celebrato nel 1950, le cui direttive sono state però stravolte da scelte politiche successive. Il Congresso dovrebbe servire, oltre che a ricuperare i valori identitari del popolo della Sardegna, ad indicare autonomamente le linee del futuro processo di crescita e sviluppo dell’Isola. Un autonomismo decisionale che non fosse sorretto dal rispetto dei valori identitari e da quello del futuro materiale dell’area regionale deciso autonomamente caratterizzerebbe, come è avvenuto nel passato, l’autonoma capacità decisionale dell’Isola senza una sua generalizzata legittimazione sociale. Si tratterebbe, infatti, di un autonomismo sterile, in quanto mancante del collante necessario perché il suo potenziamento possa essere sorretto da una forza sociale adeguata e tale da rendere reciprocamente compatibili le identità regionali con l’identità nazionale, all’interno di una riorganizzazione dello Stato nazionale in senso federalista.
L’indicazione autonoma degli obiettivi socio-economici da perseguire unitamente al ricupero dei valori identitari dovrebbe costituire la fonte dalla quale derivare, sia la riscrittura di un nuovo Piano di crescita-sviluppo, sia le linee-guida per la riscrittura dello Statuto. L’azione legittimante emergente dai lavori del Congresso del Popolo per la riscrittura del nuovo Piano di crescita e di sviluppo dell’Isola dovrebbe anche servire ad evitare, com’è avvenuto dopo la celebrazione del primo Congresso del popolo sardo degli anni Cinquanta, che il governo dell’evoluzione futura del sistema sociale della Sardegna continui ad essere effettuato sulla base di politiche d’intervento caratterizzate da continui cambiamenti connessi al mutare delle maggioranze politiche. In futuro, per il bene dell’Isola, potranno cambiare le modalità di attuazione degli interventi, ma questi dovranno essere sempre vincolati al perseguimento degli obiettivi fissati sulla base del nuovo modello di crescita e di sviluppo sorretto dal consenso sociale acquisito.
 

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