Il motore immobile (a proposito della “riforma” del processo amministrativo)

29 Settembre 2008
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Andrea Pubusa

A quasi dieci anni dalla precedente riforma del processo amministrativo (L. 205/2000), il Governo torna a intervenire sulla materia con norme definite di “accelerazione”. Ma è proprio così o si tratta di un’opera di semplice maquillage statistico? Vediamo il contenuto della norma. L’art. 54 del D.L. n.  112/2008 stabilisce che il ricorrente debba dichiarare, per i ricorsi pendenti da cinque anni, il proprio interesse alla decisione, pena la perenzione e la perdita del diritto al risarcimento per il ritardo secondo la L. Pinto. Questo si perde anche  se il ricorrente, nel corso del giudizio, non ha presentato una domanda di accelerazione del processo (c.d. istanza di prelievo), come se la lungaggine derivasse da questa sua inerzia e non dal fatto che il Giudice non fissa l’udienza per la discussione e la decisione della causa. In realtà, il diritto alla decisione in tempi ragionevoli riguarda tutti i giudizi non solo quelli ritenuti dallo stesso ricorrente urgenti.
Come si vede, al di là dell’obiettivo dichiarato, il risultato reale di questa “riforma” sarà solo un ulteriore intralcio al normale dispiegarsi del processo che, secondo la L. 205, deve passare speditamente dal ricorso alla sentenza. Ed è semmai proprio su questo aspetto, sulla rapida definizione dei giudizi, che occorreva insistere con ulteriori possibili ritocchi della legislazione, mentre il governo accelera la possibilità di perenzione portandola da dieci a cinque anni. Non a torto, con colorita seppure macabra metafora, è stato osservato che è come se gli ospedali, non riuscendo a curare tempestivamente gli ammalati, tentassero di ucciderli e, ancora, rendessero più difficoltoso agli interessati di ottenere il giusto risarcimento per aver atteso invano o troppo a lungo le cure dovute.
Si tenga poi conto che questa disciplina si unisce all’aumento a dismisura del prelievo fiscale sui ricorsi: un ricorso normale costa 500 euro solo per l’iscrizione, mentre i ricorsi in materia di appalti, anche quelli di scarso valore (che interessano le cooperative giovanili o i piccoli imprenditori di paese) costano ben 2.000 euro: un vero e incostituzionale ostacolo alla domanda di giustizia dei cittadini nei confronti dell’Amministrazione. E’, per intenderci, come l’aumento del ticket nella sanità o delle tasse per l’iscrizione all’università.
A ben vedere, il meccanismo previsto dalla norma, non accelera né semplifica ma comporta solamente che le segreterie degli organi giurisdizionali debbano notificare alle parti migliaia di avvisi di perenzione, poiché tantissimi sono i ricorsi pendenti da oltre cinque anni.
Tali energie sarebbero sicuramente meglio rivolte a verificare l’esistenza di ricorsi omogenei rendendo possibile un’unica sentenza o una sentenza guida che possa costituire motivazione breve di una serie di decisioni successive. O ancora si potrebbe – come già si è fatto nel processo civile - annettere carattere decisorio finale all’ordinanza cautelare, non seguita da un’istanza per la prosecuzione del giudizio.
In conclusione, l’effetto di questa mirabile “riforma” sarà quello di ingolfare le cancellerie e di riempire i fascicoli di carte, inutili ai fini della decisione. Sarà insomma la classica accelerazione a vuoto che fa fare più rumore e consumare più carburante ad un motore immobile.

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