Il Tar Milano dice che il sardo all’Università si può

11 Giugno 2013
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A.P.

Volete essere moderni e internazionali? Allora prevedete all’università corsi esclusivamente in inglese. Lo ha fatto, con deliberazione del dicembre 2011, il Senato accademico del Politecnico di Milano, prevedendo, tra l’altro, la configurazione di un Ateneo a rilevanza internazionale, con aumento dell’internazionalizzazione del corpo docente in modo da assicurare che entro il 2014 “almeno 100 insegnamenti siano tenuti da docenti stranieri”. In tale contesto le linee guida hanno stabilito l’attivazione a partire dall’anno 2014 delle lauree magistrali e dei dottorati di ricerca “esclusivamente in inglese”, con conseguente sviluppo di un piano integrato per la formazione dei docenti e il conseguente sostegno agli studenti.
Numerosi docenti e ricercatori del Politecnico hanno presentato un appello al Rettore e agli organi di governo dell’Ateneo a difesa della libertà di insegnamento, chiedendo di non dare seguito a quelle delibere, di sospenderne l’efficacia e di disporne la revoca nella parte in cui hanno imposto l’uso esclusivo della lingua inglese per l’insegnamento dei corsi di laurea magistrali a partire dall’anno accademico 2014. Le ragioni poste a fondamento dell’appello possono essere così sintetizzate: 1) l’uso esclusivo della lingua inglese per l’erogazione dei corsi di laurea magistrale è in contrasto con il principio della libertà di insegnamento posto dall’art. 33 Cost., perché comprime la libertà di scelta di docenti e studenti e il pluralismo dell’offerta formativa; 2) le linee guida introducono un criterio di discriminazione su base linguistica, in violazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., con effetti sulle carriere del personale docente e su quelle degli studenti; 3) le linee guida, da un lato, contrastano con l’art. 271 del r.d. 1933, n. 1592, nella parte in cui stabilisce che la lingua italiana è la lingua ufficiale dell’insegnamento e degli esami in tutti gli stabilimenti universitari, dall’altro, stravolgono il senso dell’art. 2, comma 2, della legge 240/2010 che, nel promuovere l’internazionalizzazione dell’Università, mira a promuovere l’integrazione fra le culture e non ad imporne una a scapito delle altre; 4) l’imposizione della lingua inglese non si correla alla valorizzazione della qualità degli insegnamenti impartiti.
Il Senato accademico, a maggioranza, ha respinto il reclamo e ha confernato l’adozione della lingua inglese per i corsi di laurea magistrale e di dottorato di ricerca.
Non è rimasta a studenti e docenti contrari altra via che il ricorso al Tar, che ha annullato le misure inglofone. Vediamone le ragioni.
Le misure in concreto adottate dai singoli Atenei per mettere in atto il processo di internazionalizzazione previsto dalle disposizioni della legge n. 240/2010, e in particolare dall’art. 2 comma 2 lett. l) della stessa, sono da considerarsi compatibili con il nostro ordinamento nazionale unicamente nella misura in cui esse non abbiano quale effetto di collocare la lingua italiana in posizione marginale rispetto ad altre lingue, facendole assumere un ruolo subordinato nel contesto dell’insegnamento universitario. L’internazionalizzazione delle Università deve, infatti, essere compiuta nel rispetto del primato della lingua italiana, da intendersi secondo le precisazioni sviluppate dalla Corte Costituzionale. Sicché non risultano conformi al principio del primato della lingua italiano delibere degli Atenei - quale quelle adottate dal Politecnico di Milano nel senso di imporre l’uso esclusivo della lingua inglese nei corsi di laurea magistrale e nei dottorati di ricerca - che, nell’ambito di percorsi di formazione universitari, impongano l’uso di una lingua diversa dalla lingua italiana in guisa tale che, in questi ambiti, sarebbe del tutto precluso l’utilizzo della lingua italiana, tanto nella fase dell’insegnamento, quanto nel momento delle prove d’esame. Si tratta infatti di una soluzione che marginalizza l’uso dell’italiano, perché la lingua straniera non si pone sullo stesso piano di quella italiana, affiancandola, ma la sostituisce radicalmente.
La scelta di valorizzare in modo assorbente l’uso della lingua inglese per tutti i corsi delle lauree magistrali e per i dottorati, senza tenere conto della specificità dei diversi insegnamenti, della possibilità di valorizzare altre lingue straniere e della necessità di attuare l’apertura vero l’estero mantenendo il primato della lingua italiana, secondo i principi emergenti dalla Costituzione, contrasta anche con la libertà di insegnamento, garantita dall’art. 33 Cost. e con il correlato diritto allo studio. L’italiano non è infatti tutelato dal nostro ordimento quale mero mezzo di comunicazione orale o scritta, ma per l’insieme di valori culturali che esso sottende. È consequenziale rilevare, che la piena esplicazione della libertà di insegnamento presuppone la possibilità di utilizzare l’italiano, nel senso che il docente che esercita in una istituzione pubblica deve poter scegliere di trasmettere le conoscenze nella lingua italiana. Simmetricamente, il discente deve essere posto in condizione di avvalersi della lingua italiana per la formazione praticata in una Università italiana.
Le misure adottate dagli Atenei per porre in essere in concreto l’obiettivo posto dalle norme, di favorire l’internazionalizzazione degli stessi, debbono essere adottate nel rispetto del principio di proporzionalità il quale impone, in estrema sintesi, che la misura adottata dall’amministrazione sia idonea a realizzare l’obiettivo perseguito e non vada oltre quanto è necessario per raggiungerlo. Sicché le scelte compiute in concreto dal Senato accademico con le delibere impugnate si rivelano sproporzionate, sia perché non favoriscono l’internazionalizzazione dell’Ateneo, ma ne indirizzano la didattica verso una particolare lingua e verso i valori culturali di cui quella lingua è portatrice, sia perché comprimono in modo non necessario le libertà, costituzionalmente riconosciute, di cui sono portatori tanto i docenti, quanto gli studenti”.

Fin qui testualmente la sentenza del Tar Lombardia. Possiamo trarre spunto per l’insegnamento della lingua sarda? Sembra di sì. Salvo voler ritenere che l’insegnamento dell’inglese sia di per sé più meritevole in Sardegna di quello della lingua sarda, può ritenersi che, nel rispetto del principio della proporzionalità, ossia del favor verso la lingua sarda e dei valori culturali di cui essa è portatrice, senza comprimere la libertà, costituzionalmente riconosciuta di studenti e docenti di studiare e parlare in italiano, l’introduzione di corsi in sardo siano possibili. Concretamente potrebbe iniziarsi dai corsi sdoppiati (sono tanti), dove sarebbe possibile, tenerne uno in italiano e uno in sardo. In questo modo si evitano antipatiche e anticostituzionali compressioni, e insieme si favorisce un sistema di valorizzazione del sardo anche scritto, con la predisposizione di manuali, dispense e materiali vari. Certo, le difficoltà non sono poche, prima fra tutte il reperimento di docenti in grado di farlo. So che questa soluzione per alcuni è poco, per altri è troppo. Ma forse è l’unico modo per iniziare.

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