La parabola del predone

2 Luglio 2013
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Carlo Dore jr.

La fase discendente della parabola del predone ha inizio in una strana serata di maggio del non lontano 2010, quando due funzionari della Questura di Milano – in violazione delle procedure vigenti – affidarono una minorenne marocchina fermata per furto nelle mani di una procace “consigliera ministeriale”, adempiendo così all’ordine impartito tramite una frenetica raffica di telefonate dal Presidente del Consiglio in persona: “liberatela, è la nipote di Mubarak”.
Furono in pochi, allora, ad intuire la complessità del sistema che si celava dietro quella assurda sequenza di telefonate, dietro allo scomposto agitarsi di un premier dimostratosi ancora una volta incapace di abbandonare la sua naturale dimensione di mattatore del Drive In; furono in pochi a percepire quanto squallidamente pericolosa fosse la realtà in cui Silvio Berlusconi sfogava le sue pulsioni egocratiche, indifferente alle sorti di un Paese prossimo al default.
La parabola del predone procedeva indisturbata tra gare di burlesque e allegre schitarrate, maschere di Obama e buste piene di denaro, fanciulle da copertina ed improbabili sbornie di Sanbitter: era il mondo del Bunga-Bunga, l’iperbole di un leader che – a braccetto con Gheddafi, Putin e Ben Ali – si considerava depositario di un potere senza limiti. Già, il potere: l’inchiostro con cui era tracciata la parabola del predone, il fuoco della ubris berlusconiana, alimentato giorno dopo giorno dalla sfacciata commistione tra funzione istituzionale e tutela di interessi privati.
Investito del lauro dal consenso popolare, il predone impone e dispone, ad Arcore come a Palazzo Chigi: ecco le Olgettine marciare tacchi al vento verso il Pirellone, ecco Lavitola e Bisignani padroni assoluti della stanza dei bottoni, ecco fioccare processi brevi e legittimi impedimenti. E se una delle protagoniste delle cene eleganti finisce per caso in un commissariato di polizia, viene trasformata nella nipote di Mubarak e rispedita di gran carriera nel suo mondo dorato, in barba a magistrati, codici ed altri inutili orpelli da polverosi legulei. L’abuso diviene prassi, la menzogna si trasforma in verità di Stato, ratificata da un Parlamento umiliato nella sua alta funzione dalle determinazioni assunte in seno ad un bivacco di manipoli. Il predone non conosce limiti: come Gheddafi, come Putin, come Ben Ali.
Ma la curva discendente è inarrestabile, la parabola volge al termine: la forza della legge prevale sulla maniacale ricerca dell’impunità, e la condanna pronunciata dal Tribunale di Milano nei confronti di Berlusconi travolge anche quel sistema di piccole e grandi bugie, malcelate prevaricazioni e relazioni opache che del circo del bunga-bunga costituivano il meccanismo dominante.
“E’ una sentenza politica”, guaiscono feriti gli oplites del Cavaliere; “è una sentenza politica”, berciano disperate le Olgettine e le altre pasdaran capitanate da Daniela Santanchè, evidentemente ignare del fatto che l’accertamento della responsabilità penale cristallizzato in una sentenza può costituire un semplice corollario di una ben più ampia responsabilità politica. Nel momento in cui, dalle parole dei giudici, emerge la sconcertante debolezza di un uomo di Stato inerme dinanzi ai molteplici desiderata delle starlette del suo cerchio magico; nel momento in cui viene rilevata la palese incompatibilità tra la sua condotta e quei parametri di disciplina ed onore che la Costituzione gli impone di osservare nell’espletamento della sua funzione istituzionale, ecco che il verdetto del Tribunale non si limita ad affermare la colpevolezza del più eccellente tra gli imputati, ma rappresenta anche il tanto atteso momento conclusivo di quella che è stata la lunga parabola del predone.

(articolo pubblicato su cagliari.globalist.it)

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