Il “progressista medio” e il partito vero

1 Ottobre 2013
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Carlo Dore jr.


 L’elettore progressista medio (non mediocre) è solitamente portato a ravvisare nella mancanza di rinnovamento della classe dirigente la causa principale – o addirittura esclusiva – della crisi politica che attanaglia l’Italia dagli albori del terzo millennio: crisi di consenso, crisi di identità, crisi di rappresentatività. C’è ansia di rinnovamento, sotto il variegato cielo della sinistra italiana: un’ansia di rinnovamento che si è tradotta in una montante avversione verso le tradizionali forme di militanza, e verso le strutture che di tale forme di militanza costituivano la sede naturale; un’ansia di rinnovamento che ha trovato sfogo ora nel fuoco fatuo dei tanti presunti leader consumatisi nel breve arco di una stagione, ora nella retorica della rottamazione, ora nei rigurgiti reazionari che tuttora assecondano l’invettiva grillina.
 Ma liquidare la crisi in atto come il mero corollario di una “questione generazionale” superabile attraverso l’avvento del homo novus (identificato ora nel sindaco in carriera, ora nel manager di successo, ora nell’imprenditore con la decisione in punta di dita) può essere da un lato riduttivo, d’altro lato fatalmente pericoloso. Riduttivo, perché il semplice superamento di una classe dirigente non impone di individuare le cause che ne hanno determinato il fallimento; pericoloso, perché il rinnovamento personale non offre alcuna garanzia di una politica rinnovata.
 E’allora necessario domandarsi se la crisi della politica non sia una crisi dei partiti prima ancora che dei gruppi dirigenti che dei partiti hanno il controllo, e se questa crisi non trovi la propria ragion d’essere nella dismissione del modello di partito inteso come centro di formazione e mobilitazione conseguente alla necessità di assecondare quell’ansia di rinnovamento a cui si è in precedenza fatto cenno. Una crisi figlia dell’illusione che il carisma del leader possa sopperire alla mancanza di un progetto politico di ampio respiro; dell’idea di obliterare le strutture del partito a favore del rapporto diretto tra elettore ed eletto (facilitato dall’avvento dei social network); dell’esaltazione delle primarie come “momento di partecipazione” utile a coprire le debolezze di partiti ormai incapaci di selezionare le proprie candidature sulla base di un percorso di militanza degno di tale nome.
 Le conseguenze prodotte dall’imposizione del “partito leggero” sono deflagrate all’inizio della legislatura in corso: il candidato scelto tramite le primarie giubilato dalla rete di compromessi e “veti incorciati” che regola la coesistenza tra culture inconciliabili; i parlamentari che disattendono le indicazioni del partito per assecondare gli umori di twitter; militanti disorientati dinanzi al triste spettacolo di un partito incapace di proporre una linea politica unitaria, e ridotto alla avvilente condizione di trampolino verso le cariche istituzionali oggetto delle ambizioni dei vari cacicchi sparsi sul territorio nazionale.
 Come se ne esce? Non se ne esce. Non senza prendere definitivamente coscienza di una incontrovertibile realtà: il rinnovamento generazionale presuppone l’esistenza di un substrato oggettivo, di una struttura solida in grado di favorire la formazione di quella nuova classe dirigente della quale tanto si avverte la necessità. Dunque, prima di partire alla conquista del partito rinnovabile, è necessario ritornare alla dimensione del “partito” vero, di un partito idoneo ad assolvere alla propria costituzionale funzione di strumento di partecipazione dei cittadini alla vita politica del Paese.
 E’ nel contesto del partito “vero” che possono trovare applicazione i concetti di sperimentalismo democratico e di lotta al catoblepismo declinati da Fabrizio Barca nel suo documento: nel contesto di un partito capace di favorire il confronto tra esperienze diverse per contribuire all’elaborazione di una proposta programmatica coinvolgente; nel contesto di un partito che, rigorosamente separato dalla cosa pubblica, non venga vissuto come opportunità di carriera per quelli che lo stesso Berlinguer impietosamente definiva “boss e sotto-boss”.
 Ed è sempre nel contesto del partito vero che l’elettore progressista medio (e non mediocre) può rivedere la propria posizione iniziale : la crisi della politica italiana non risolve invocando l’homo novus, magari legittimato dalle primarie, ma promuovendo un percorso di rinnovamento all’interno di un partito ritornato al suo tradizionale ruolo di centro di formazione e di elaborazione politica: nella consapevolezza del fatto che l’esistenza di un partito vero costituisce il presupposto imprescindibile per poter discutere di partito rinnovabile.

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