I limiti della riforma Monti-Fornero

4 Novembre 2013
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Gianfranco Sabattini
 

Ora che anche il “campione dell’innovazione” Matteo Renzi la fa propria, è quantomai utile un esame della  coontroriforma Fornero sul lavoro.

Una valutazione della riforma del mercato del lavoro introdotta col DdL Monti-Fornereo non è ancora possibile, in quanto sono insufficienti i dati raccolti sui suoi esiti dal sistema di monitoraggio del Ministero del lavoro; al momento, in assenza di dati ed essendo le nuove disposizioni non ancora a regime, si possono valutare solo i principi ispiratori della riforma, cercando di cogliere alcuni degli aspetti del dibattito che si è sviluppato successivamente alla sua approvazione ed alla sua parziale attuazione.
I principi ai quali la riforma si è rifatta tendono innanzitutto a ribadire la natura del contratto di lavoro a tempo indeterminato come “contratto dominante”; in secondo luogo, tendono a ridistribuire più equamente la tutela dell’impiego, ad adeguare le disciplina del licenziamento individuale alle esigenze dettate dalle mutate condizioni di riferimento e, infine, a rendere più efficiente, coerente ed equo il sistema degli ammortizzatori sociali e delle politiche attive del lavoro.
Nella valutazione della riforma, i principi devono essere considerati congiuntamente e non singolarmente; nel complesso, essi evidenziano l’intento positivo del legislatore di ridurre le forme di occupazione del lavoro autonomo, al quale si contrappone, però, una facilitazione del licenziamento individuale, nella speranza che le imprese siano indotte a fare ricorso a contratti di lavoro a tempo indeterminato, in luogo dei contratti di lavoro a tempo determinato o ai contratti di lavoro atipici. Le resistenze politiche, sindacali e datoriali sono state molto intense e di segno opposto; ciononostante, si ritiene da più parti che la riforma abbia affermato una prospettiva di cambiamento del mercato del lavoro e delle relazioni industriali importanti per il tempo a venire, alla sola condizione però che essa sia completata e resa funzionale nei prossimi anni da ulteriori riforme di struttura che possano concorrere a realizzare, da un lato, un più stretto collegamento del sistema della formazione con il sistema produttivo e, dall’altro, l’estensione in termini più comprensivi della garanzia del reddito ai disoccupati involontari.
Pur non potendosi ancora fare una valutazione complessiva della riforma Monti-Fornero per le ragioni esposte, si tende a valutare positivamente anche il fatto che essa introduca in Italia, per la prima volta, da un lato, un’unica assicurazione, uguale per tutti i lavoratori dipendenti, contro la disoccupazione; dall’altro, un riordino della Cassa integrazione guadagni che la riconduce alla sua funzione originaria di conservare la forza lavoro legata all’impresa nelle situazioni di difficoltà temporanea, cessando quella di sostenere con contributi pubblici le imprese prive di ogni possibilità di potersi conservare sul marcato.
Tuttavia, la riforma è normalmente criticata riguardo ai tempi della sua attuazione; molti sostengono che sarebbe stato meglio attendere la fine della crisi in atto prima di avviare la sua applicazione; ciò per meglio attuare quella sua parte che facilita i licenziamenti, in considerazione del fatto che gli esiti della crisi potrebbero giustificare i licenziamenti senza che ad essi possa fare seguito, com’è nella ratio della riforma, un aumento dell’occupazione a tempo indeterminato. La critica più pregnante che può essere portata alla riforma Monti-Fornero riguarda però il fatto che essa è incompleta, in quanto manca ogni suo collegamento con le riforme che avrebbero dovuto riguardare, come si è detto, il mondo delle formazione e una più estesa garanzia contro il rischio per la forza lavoro di perdere ogni capacità di reddito.
In Italia, la cura del rapporto tra sistema della formazione e mondo del lavoro è sempre stato affidato all’iniziativa individuale, o tutt’al più al potere pubblico locale, mai all’iniziativa statale concertata con le organizzazioni sindacali e datoriali, come avviene in altri Paesi, come ad esempio in Germania. Con quali modalità tutto ciò si sarebbe dovuto fare? A tal fine, sarebbe stato necessario accompagnare la riforma con l’introduzione in Italia di un reddito minimo sociale garantito a tutti (quantomeno ai disoccupati), attraverso l’istituzionalizzazione del reddito di cittadinanza, la cui adozione in Italia non è mai stata seriamente discussa, almeno non con la stessa frequenza ed intensità con cui sono state oggetto di dibattito le iniziative di riforma di breve periodo del welfare State.
In Italia, i governi e le parti sociali più direttamente coinvolte (partiti, sindacati dei lavoratori e organizzazioni datoriali) sono stati sempre propensi ad identificare la loro azione con la conservazione della centralità del lavoro e mai propensi a ricercare nuovi criteri etico-politici sulla base dei quali affrontare le riforme, per riproporre in termini nuovi il funzionamento del sistema sociale. Le politiche attive contro la disoccupazione, incluse quelle previste dalla riforma Monti-Fornero, si basano ancora sull’idea che il lavoro salariato sia il punto cardine per la stabilità del sistema sociale. Quest’idea esprime un limite proprio del modello economico capitalista, che non accetta il tempo “liberato” dal lavoro formale come tempo utile e risorsa alternativa. Anche se in maniera ancora molto differenziata, tutti i paesi europei hanno adottato il reddito minimo garantito all’interno dei propri sistemi di welfare; c’è ancora bisogno di miglioramenti, ma questa è la “via maestra” per attuare anche in Italia una riforma complessiva del mercato del lavoro che sia reale strumento di rilancio dell’economia e di ricupero delle tanto agognate stabilità e sicurezza sociali.

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