I comunisti? Mangiavano i bambini

4 Gennaio 2014
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Gianluca Scroccu

“Così non interromperai la tradizione dei comunisti che mangiano i bambini”. Con queste parole, nell’ottobre 1998, Francesco Cossiga accompagnava il regalo costituito da un bambolotto di zucchero al neo presidente del Consiglio Massimo D’Alema, primo ex comunista a ricoprire l’incarico. Una leggenda, quella dei comunisti divoratori di bambini, sui cui ora riflette lo storico Stefano Pivato nel suo accattivante volume I comunisti mangiano i bambini. Storia di una leggenda (Il Mulino, pp. 192, € 14).
Rettore dell’università di Urbino, dove insegna storia contemporanea, Pivato conduce il lettore in un viaggio particolareggiato, sempre accompagnato da una scrittura piacevole e da un apparato iconografico che integra al meglio il testo, teso a dimostrare l’origine di una delle leggende più strane quanto potenti anche come arma di propaganda politica. Pur precisando che la storia dell’antropofagia è stata trasversale rispetto a criteri come l’ideologia e la nazionalità, nel libro si dimostra come la voce che i comunisti avessero l’usanza di divorare bambini abbia riscontrato una sua particolare quanto duratura fortuna, arrivata sino ai nostri giorni. Si pensi soltanto ad alcuni dei più recenti comizi di esponenti politici come il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi, protagonista anche di una memorabile gaffe sui cinesi mangiatori di fanciulli che fece sfiorare l’incidente diplomatico. Ma da dove nacque la leggenda? Come si spiega nel volume, l’origine si può ricercare nella spaventosa carestia che tra gli anni Venti e Trenta flagellò l’Unione Sovietica, portando molti dei suoi abitanti nella condizione di doversi cibarsi di carne umana, in particolare donne e bambini, per garantirsi una precaria sopravvivenza. Un cannibalismo non politico, ma derivante solo da una quasi totale assenza di cibo, dove il comunismo divenne responsabile della disumanizzazione solo in virtù della sciagurata scelta della collettivizzazione decisa da Stalin. Episodi di cannibalismo che continuarono con la terribile esperienza dei gulag, per proseguire sempre in Urss ai tempi dell’invasione nazista nella seconda guerra mondiale. Qui però i casi di cannibalismo si diffusero assai rapidamente tra i soldati invasori compresi quelli italiani, e molto opportunamente l’autore cita in proposito dei passi di Francesco Masala e del suo “Quelli dalle labbra bianche”.
In Italia il mito dei divoratori dei fanciulli si deve ricercare nelle polemiche fra anticlericali e cattolici esplose già tra fine Ottocento e nel primo Novecento. L’esperienza bellica della seconda guerra mondiale, e la guerra civile successiva alla caduta di Mussolini, acuirono questi contrasti e riportarono in auge l’utilizzo strumentale dei bambini come arma di propaganda politica. In particolare furono i repubblichini di Salò a costruire immagini propagandistiche inerenti presunte deportazioni di massa di fanciulli italiani verso la terra di Stalin, il tutto orchestrato con la complicità degli Alleati. Una falsificazione, come si spiega nel libro, che diventò presto il terreno su cui costruire anche in Italia la leggenda dei comunisti “golosi” di bambini e farla entrare nell’immaginario degli italiani. Questo si vide bene nel secondo dopoguerra, ai tempi della contrapposizione fra comunisti e democristiani e delle logiche divisive della guerra fredda, dove il mito dei comunisti divoratori divenne strumento di comunicazione politica per cui l’orco delle fiabe prese sempre di più le sembianze di Stalin. Un contesto di lotta politica che, come dimostra Pivato, non ha esitato nel rendere anche i bambini protagonisti, loro malgrado, dello scontro ideologico del Novecento.

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