Crisi dell’università e legge Gelmini: quale riforma? (2)

4 Novembre 2008
1 Commento


Gianfranco Sabattini

Sulla base dell’esperienza sinora vissuta, qual’è il ceppo originario sul quale innestare la discussione? Intanto, sulla più appropriata natura giuridica degli atenei; in secondo luogo, sulle modalità con cui organizzare l’arruolamento del personale docente, rimuovere il demerito, liberalizzare la didattica, ecc.; infine, sull’opportunità di abolire il valore legale del titolo di studio, di introdurre il numero chiuso, di collegare i corsi di dottorato agli atenei di ricerca, ecc. Il reale riscatto dell’università italiana dalle molte pastoie corruttive che l’hanno sinora afflitta dipenderà dalle risposte reciprocamente coerenti che si riuscirà a dare a tutti questi problemi. Si può, però, sinora stare certi che questo approccio alla modernizzazione dell’università italiana è destinato senz’altro a sicuro insuccesso, a causa dei molti vincoli che, allo stato attuale, pesano sulla sua organizzazione complessiva e sulle modalità di svolgimento delle sue funzioni: eredità storica, consolidamento degli interessi corporativi, malinteso senso dell’autonomia, ecc. Tutti vincoli questi che, sino a quando non saranno rimossi, favoriranno il succedersi di riforme parziali tutte inficiate sin dall’origine dall’esteso conflitto di interessi del quale sono portatori i riformatori.
Questi, infatti, anziché considerarsi “materia” di riforma, propendono sempre per l’introduzione di cambiamenti compatibili con la salvaguardia dei loro interessi particolari economici e di carriera. La logica riformistica intrinseca ai provvedimenti di volta in volta adottati “non paga”; essa consente, come l’esperienza insegna, di affrontare di volta in volta uno dei tanti problemi dell’inefficienza complessiva dell’università, trascurando ovviamente le sue interconnessioni con i tanti altri problemi che nell’insieme connotano l’inefficienza complessiva. L’esempio in proposito è offerto dai recenti provvedimenti sul riordino dei corsi universitari, con i quali è stata introdotta la laurea-breve, la cui regolazione in termini di contenuti formativi è stata delegata alle singole facoltà universitarie. Tali contenuti sono stati pensati ed istituzionalizzati con percorsi didattici, non in funzione delle aspirazioni degli studenti, ma in funzione degli interessi di quella parte di docenti che, maggioritaria all’interno dei singoli consigli di facoltà, ha imposto le sue scelte, prescindendo da ogni reale esigenza riformatrice.
Può l’Italia uscire dal “tunnel” della logica delle riforme parziali? Lo può, a patto che si decida di progettare un modello complessivo di nuova università, la cui attuazione avvenga in presenza di un controllo sociale il più esteso possibile, per rimuovere il conflitto di interessi che connota in negativo, come sinora è accaduto, qualsiasi ipotesi di riforma parziale. Ovviamente, la scelta del modello non può essere materia di esclusiva competenza delle singole facoltà, in quanto dovrà essere oggetto di una scelta politica socialmente condivisa. Se ciò accadesse, cesserebbe la prassi di presentare questa o quella proposta di riforma parziale, in quanto la logica intrinseca ad un modello complessivo di riforma condiviso suggerirebbe quali provvedimenti di volta in volta approvare in funzione del risultato finale da perseguire. Ma cesserebbe anche la moda di avanzare proposte parziali e non motivate, quale quella paventata dall’attuale governo, che hanno solo l’effetto di stimolare situazioni di protesta, senza migliorare la qualità e l’efficienza dell’istruzione terziaria nazionale.

1 commento

  • 1 valentina
    29 Novembre 2008 - 16:11

    oggi si parla di crisi dell’università, per un solo motivo, siamo di fronte alla crisi della democrazia.

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