Concorrenza e “rivoluzione liberale”

28 Novembre 2014
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Gianfranco Sabattini

Luigi Zingales, economista italiano della Booth School of Business dell’Università di Chicago, ha scritto tempo fa “Manifesto capitalista. Una rivoluzione liberale contro un’economia corrotta”; scopo del “Manifesto” non è tanto quello di sostenere la desiderabilità del modo di funzionare capitalistico del sistema economico, quanto quello di sensibilizzare l’opinione pubblica “sul cancro rappresentato dal capitalismo clientelare” e di delineare “un programma per combatterlo”.
Zingales ha scritto il “Manifesto” per l’opinione pubblica del Paese che lo ospita, ma le sue argomentazioni e le sue proposte hanno una validità generale, nel senso che sono estendibili a tutte le latitudini, sol che vi sia un sistema capitalistico operante. La sua proposta a tutela della maggioranza dei cittadini-consumatori è fondata sul convincimento che la concorrenza svolga un ruolo salvifico, considerato che il “vero e straordinario segreto insito del sistema capitalistico non è la proprietà privata né la ricerca del profitto, ma la concorrenza”; secondo Zingales, è solo “grazie alla competizione tra interessi economici divergenti che si migliora il benessere di tutti”, così com’è solo “dalla competizione tra opposti interessi politici che si ottiene la libertà intellettuale” e il buon funzionamento della democrazia. Affinché la concorrenza produca i suoi effetti benefici occorre che i cittadini siano ben protetti da regole certe, efficaci e cogenti; queste, però, devono essere “poche e semplici”, perché solo così esse “rendono più difficile accomodare interessi specifici, riducendo l’interesse a fare lobby”, nello stesso modo in cui i cittadini, in quanto elettori, possono controllare più facilmente i loro eletti, per il buon funzionamento della democrazia.
Le regole solo formali, però, non sono sufficienti; occorre che esse siano supportate da regole sociali informali, di natura consuetudinaria ed etica, utili a garantire la promozione e la sopravvivenza del sistema capitalistico nel lungo periodo. Tra queste, una delle più importanti è la “fiducia”; essa serve a “colmare il divario fra ciò che sappiamo e ciò che dovremmo sapere per prendere una decisione davvero consapevole”. La fiducia nel comportamento degli attori economici, perciò, è essenziale per il funzionamento ideale del mercato, perché facilita lo svolgersi del “traffico economico”, consentendo di risparmiare sui costi di controllo e traducendosi in “un lubrificante essenziale per gli ingranaggi dell’economia”. La fiducia, però, senza norme etiche, sarebbe inutile: per essere d’aiuto al funzionamento delle istituzioni capitalistiche, a iniziare dal mercato, essa deve essere sorretta da regole che dettino come i cittadini-consumatori devo comportarsi.
Molti economisti rifuggono la considerazione delle regole etiche nello studio del comportamento degli attori economici; ciò perché essi assumono che l’analisi economica non debba partire da considerazioni morali, per stabilire come gli attori devono agire; l’analisi deve limitarsi a considerare come, di fatto, gli attori agiscono. Si tratta – secondo Zingales – di una “posizione ipocrita”. In primo luogo, perché le “analisi statistiche dimostrano che le persone che scelgono di studiare economia non solo sono, tanto per cominciare, più egoiste e meno interessate al bene comune, ma lo diventano sempre più”. Ciò, a parere di Zingales, dovrebbe essere sufficiente a giustificare l’assunto che, sia pure inconsapevolmente, gli economisti insegnano ai propri allievi sul come agire normativamente per portare a compimento il proprio progetto di vita. In secondo luogo, gli economisti dimostrano la loro ipocrisia rifiutando di riconoscere che, quando stabiliscono come gli attori economici, privati o pubblici, devono comportarsi, per raggiungere nel miglior dei modi un dato obiettivo, conformemente alle aspettative individuali o collettive, in realtà si occupano di analisi normativa.
In presenza di regole formali e informali adeguate, le democrazie, ovvero i contenitori istituzionali al cui interno è possibile il funzionamento delle economie capitalistiche, sono in una “continua lotta per il fornire giusti incentivi […] e il garantire che i benefici dell’economia di mercato siano ampiamente condivisi, così da assicurare che la gente abbia fiducia sia nell’efficienza sia nell’equità del sistema”. La lotta, tuttavia, deve essere condotta tenendo conto che, senza “qualche disuguaglianza”, non ci sarebbero incentivi; un’accentuata disparità nei redditi, però, produrrebbe effetti politici negativi, mentre l’eliminazione delle disuguaglianze eccessive, attraverso una ridistribuzione del prodotto sociale realizzata con imposte elevate, comporterebbe una cancellazione di quegli incentivi, com’è avvenuto e continua ad avvenire nei Paesi socialisti e socialdemocratici, con la conseguente compromissione della crescita e del miglioramento delle condizioni esistenziali di tutti.
Una procedura alternativa alla ridistribuzione forzosa del prodotto sociale, senza gli esiti negativi che essa normalmente produce, è la realizzazione di un’”uguaglianza delle opportunità”, attraverso la quale “rendere i mercati più inclusivi, preservando gli incentivi che ci fanno crescere”. Secondo Zingales, è possibile realizzare l’uguaglianza dei punti di partenza di tutti i componenti il sistema sociale con la creazione di un’adeguata “rete di protezione”, non solo per garantire il consenso politico all’economia di mercato, ma anche per incoraggiare tutti ad investire nel proprio futuro; deve trattarsi di una rete di protezione sufficiente innanzitutto a consentire la riduzione dei debiti personali, quando il debitore per causa di forza maggiore non può rimborsarli, e la corresponsione di un sussidio di disoccupazione ai lavoratori quando perdono il posto di lavoro, abbinato all’opportunità di una loro riqualificazione professionale; ma anche ad assicurare il miglioramento della qualità dei sevizi sociali fondamentali, quali quelli connessi all’istruzione e alla cura della salute personale. A queste garanzie, di per sé insufficienti, andrebbero poi aggiunte, come “conditio sine qua non”, la promozione della concorrenza in tutti i mercati nei quali essa è assente e scarsa.
Basta così? Si ha motivo di pensare che la proposta di Zingales, per realizzare una “rivoluzione liberale” all’interno delle economie capitalistiche rese asfittiche dal fatto che la corruzione e il clientelismo hanno oscurato o fatto smarrire il carattere “vero e straordinario” dei liberi mercati, la concorrenza, pecchi di un eccesso di fiducia riposta nella possibilità di curare i mali dei sistemi economici moderni ad economia di mercato con proposte che non si conciliano con i risultati cui è pervenuta la moderna ricerca economica e sociale in fatto di parificazione delle opportunità di partenza di tutti i componenti il sistema sociale.
I contributi di Amartya Sen, John Rawls e Ronald Dworkin, ad esempio, hanno caratterizzato la realizzazione della condizione di pari opportunità per i componenti il sistema sociale in termini di una sostanziale uguaglianza nella possibilità di scelta delle proprie “forme di vita”; essi hanno anche dimostrato che l’uguaglianza dei punti di partenza, implica la realizzazione di un’equità distributiva intragenerazionale ed intergenerazionale molto radicale nel contesto degli attuali ordinamenti dei sistemi sociali ad economia di mercato.
La realizzazione su queste basi dell’uguaglianza dei punti di partenza evidenzia, infatti, come sia impossibile da conseguire quando ricorrono disuguaglianze distributive, sia pure regolate, del reddito e soprattutto della proprietà accumulata. Per molti, incluso Zingales, una radicale realizzazione della parificazione delle pari opportunità di partenza lascerebbe alla libertà, tratto costititutivo del mercato di concorrenza, uno spazio molto ridotto.
L’attribuzione di un valore significativo all’uguaglianza ex ante di tutti i componenti il sistema sociale, perciò, comporta necessariamente una limitazione dello spazio che gli ordinamenti liberali delle economie di mercato assegnano alla libertà, soprattutto per quanto concerne le scelte riguardo a tutto ciò che ricade all’interno dei loro diritti di proprietà privata. In linea di principio, ciò comporta una ricaduta nell’antica contrapposizione tra liberismo proprio del liberalismo originario e liberismo proprio del repubblicanesimo moderno, fondato sull’istituzionalizzazione della “proprietà repubblicana”. Questa, com’è noto, implica un radicale ridimensionamento dell’istituto della proprietà, sino a rendere operante le due dimensioni del liberismo repubblicano: equa distribuzione del reddito e della proprietà e disuguaglianze contenute entro limiti da rendere ininfluenti gli esiti delle scelte di ognuno nei confronti di quelle di ogni altro, da un lato; paritaria partecipazione di tutti alle scelte collettive, dall’altro. Queste due dimensioni esprimono l’ordinamento istituzionale all’interno del quale è possibile realizzare, senza contraddizioni, una reale parificazione delle opportunità di partenza per tutti i componenti il sistema sociale; al di fuori di esso, qualsiasi pretesa “rivoluzionaria” avanzata in funzione dell’eliminazione delle disuguaglianze perde ogni significato.

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