Cambiamento vs. interessi costituiti

16 Dicembre 2014
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Gianfranco Sabattini
Cesare Pozzi, docente di discipline economiche presso l’Università di Foggia e la Luiss “Guido Carli” di Roma, già consulente della Presidenza del Consiglio dei Ministri in materia di infrastrutture e trasporti dal 2007 al 2008, ha pubblicato sul n. 2/2014 de “l’Industria”, della quale è vicedirettore, l’articolo “Crisi. Teorie e politiche: il coraggio di cambiare”.
Pozzi, fa propria l’esternazione di Papa Francesco secondo il quale la crisi che gran parte del mondo sta vivendo starebbe producendo un “cambio di cultura”, segnale inconfutabile di un “cambiamento d’epoca” che, se non opportunamente governato, espone il mondo stesso al pericolo di una decadenza morale politica, sociale ed economica; ciò lo porta a sostenere che s’impone il problema di comprendere come gestire il rischio paventato da Papa Francesco, evitando che nel nostro ‘cambio d’epoca’ si affermino le tendenze peggiori.
Rifacendosi a John Maynard Keynes, Pozzi rinviene questo rischio nella difficoltà di riuscire a sottrarsi all’influenza delle “idee vecchie”, radicatesi profondamente nella mente delle generazioni che ad esse sono state educate, sino a trasformarsi nel pericolo evocato dal Papa; ciò può risultare grave se le vecchie idee conformano il “comportamento di quegli uomini che, pur dichiarandosi scevri da condizionamenti intellettuali, si rivelano alla prova dei fatti schiavi- come diceva Keynes – di qualche economista defunto”. E’ questa la ragione per cui a impedire una politica riformista innovativa non sono tanto gli interessi costituiti, quanto la “resistenza vischiosa prodotta da abiti mentali desueti quanto radicati”.
L’osservazione di Keynes, secondo Pozzi, dovrebbe aiutare a riflettere sul fatto che i cambiamenti politici, sociali ed economici che avvengono nel lungo periodo sono interpretati e governati da gruppi dirigenti esprimenti una “cultura” sedimentatasi in un sistema di paradigmi dominanti che tendono a conservarsi, chiudendosi a qualsiasi tentativo di aggiornamento. Se nel breve periodo, l’inerzia della cultura sedimentata può “offrire soluzioni soddisfacenti” ai problemi che si succedono nel tempo, nel lungo periodo, e in corrispondenza dei cambiamenti epocali, queste soluzioni cessano di rispondere alla bisogna, trasformandosi in puro conformismo.
Un cambio d’epoca, al contrario, continua Pozzi, “richiede uno sforzo analitico volto a comprendere le reali motivazioni che hanno portato alla crisi strutturale”, con l’obiettivo di verificare e attuare percorsi idonei a riportare le strutture politiche, sociali ed economiche su una strada coerente con gli obiettivi condivisi, o a perseguirne di nuovi democraticamente stabiliti. Questa sarebbe la procedura per evitare l’insorgere, prima o poi, di una conflittualità sociale diffusa. La sua accettazione però è ostacolata dal fatto che i gruppi dirigenti dominanti esercitano il controllo sulla cultura prevalente. In questo quadro, si collocherebbe il problema dell’Unione Europea e, in particolare, quello del nostro Paese, per la cui soluzione occorrerebbe uscire dai paradigmi consolidati della scienza economica ed iniziare un’analisi critica della situazione esistente, alquanto discosta da tutto ciò che si ritiene immodificabile.
All’indomani del secondo conflitto mondiale, l’idea di trasformare gran parte dei Paesi europei in un nuovo soggetto politico dotato di una propria sovranità e di un’organizzazione in senso federalistico si è sviluppata e si è precisata secondo una congettura dei Padri fondatori del progetto europeo, originata dal convincimento che la ricostruzione e il successivo sviluppo dei singoli Paesi aderenti potessero dipendere dalla creazione di un unico mercato interno, di gran lunga maggiore di quello del quale potevano disporre al loro interno. Sul piano dell’attuazione, la realizzazione di un unico grande mercato comune implicava la prioritaria tutele giuridica della libera circolazione delle persone, delle materie prime, dei prodotti e dei capitali; secondo Pozzi, l’errore che si è commesso seguendo questa strategia sarebbe consistito nel non aver operato per “sfumare” le identità nazionali; obiettivo, questo, che sarebbe stato possibile conseguire con la creazione di un unico mercato azionario, al fine di favorire processi di fusione tra le imprese nazionali, che fossero risultati strumentali rispetto alla creazione di grandi imprese europee non più riconducibili ai singoli Stati.
Invece, si è preferito perseguire l’armonizzazione delle normative dei diversi Stati membri, assegnando il compito della sua realizzazione ad un gruppo di euro-burocrati che si è limitato a definire regole e principi d’intervento comuni, delegandone l’applicazione ai singoli Stati, trascurando di considerare l’inefficienza di molte burocrazie statali come uno dei possibili fattori che avrebbero ritardato la realizzazione del mercato interno europeo. In questo modo, i vantaggi creati dalla costruzione di questo mercato sono stati capitalizzati dai Paesi dotati delle burocrazie più efficienti, mentre i costi economico-sociali dei processi di armonizzazione delle normative sono stati fatti pesare sui Paesi più deboli, generando così “per via politico/amministrativa un percorso di progressiva divaricazione delle condizioni economiche dei diversi territori dell’Unione europea”.
Nell’imboccare questo percorso, la teoria economica – afferma Pozzi – ci ha messo del suo, in quanto, nel fungere da supporto ai gruppi dirigenti, ha guardato “alla convenienza piuttosto che alla verità”; ciò ha condotto ad assegnare ai flussi finanziari la natura indistinta di capitale, senza considerare la possibilità di utilizzarli come strumenti utili per migliorare l’economia reale europea, attraverso l’eliminazione delle profonde differenze esistenti tra i diversi Paesi aderenti al mercato unico. L’aver privilegiato nelle analisi la convenienza in luogo della verità ha impedito che si comprendessero, sia la natura dei guasti che le procedure seguite nella costruzione del mercato unico producevano negli assetti istituzionali dei diversi Paesi, sia i conseguenti effetti di non sostenibilità delle relative strutture sociali.
E’accaduto così che, condiviso l’assunto della natura neutrale dello strumento monetario, i governi degli Stati membri dell’Unione Europea si siano affidati all’aspettativa che i flussi finanziari si sarebbero mossi in funzione del rendimento atteso offerto dai mercati. In tal modo, i Paesi dotati di maggiori risorse finanziarie avrebbero finanziato le attività a maggiore rendimento localizzate all’interno dei Paesi più deboli; il risultato della libera circolazione dei flussi finanziari sarebbe stato una sostanziale convergenza di tutti i Paesi, con conseguente rimozione delle loro differenze istituzionali, sociali ed economiche.
Nella realtà, tutto ciò non si è verificato, in quanto non si è tenuto conto del “riscontro trovato”, a livello di teoria economica, dell’alta correlazione esistente tra “tassi di risparmio e investimenti domestici”. Per fare fronte alla situazione d’impasse che caratterizza l’Unione, gli europei dovrebbero convincersi del fatto che non esistono teorie economiche da cui trarre “ricette” valide in ogni tempo e luogo; l’aver accettato gli esiti di un’azione di governo suggerita da coloro che si rifacevano alle idee di qualche economista defunto ha portato il nostro Paese al progressivo abbandono del suo sistema di valori, “perdendo di vista che il proprio stile di vita è il primo fattore di successo di un’economia di mercato”. Pertanto, per superare l’impasse, è necessario che esso ripristini tutte le leve che sono proprie di un esercizio virtuoso della sovranità, nell’interesse dei cittadini italiani ed europei, “invertendo un processo di delega verso l’esterno che […] ha prodotto i risultati che sono sotto gli occhi di tutti”.
Sul fronte europeo, perciò, conclude Pozzi, è anzitutto necessario “ripensare radicalmente il sistema delle direttive ed i cosiddetti meccanismi di convergenza”; sul fronte interno, invece, “va cambiata la logica della c.d. spending rewiew”, al fine di rimodulare la spesa pubblica in modo tale “da aumentare in termini strategici il suo effetto moltiplicativo sul PIL”. Sempre sul fronte interno, occorre che il Paese definisca i propri programmi sulla base di un generale ricupero delle proprie risorse che si sono nel frattempo generate, ma collocate all’estero; a tal fine, occorrerà “immaginare un atto straordinario, un nuovo capitolo del patto sociale tra cittadini e istituzioni da cui ripartire”. Per compiere questo passo, sarà richiesta una “buona dose di coraggio e molta saggezza: il coraggio di cambiare le cose che si possono cambiare, senza considerare nulla ineluttabile, e la saggezze di individuarle. E, accogliendo l’invito del Sommo Padre, operare con ‘buona volontà’”.
Che dire dell’intera analisi e della proposta complessiva di Pozzi? Per proporre l’uscita dall’euro, c’è bisogno di ridurre la teoria economica a niente più che a un insieme di paradigmi elaborati da qualche economista defunto ed utilizzati da consulenti pigri e chiusi all’aggiornamento della scienza della quale si avvalgono per formulare “ricette” per conto di un “principe” committente? Ancora, c’è bisogno di ridurre la scienza economica a niente più che a un’attività volta solo a “strutturare” informazioni per supportare il processo decisionale, perché a volte molti economisti consulenti si prestano ad “imbellettare”, non disinteressatamente, le “ricette” gradite al “principe” di turno?
Con queste domande non si vuole certo affermare che la teoria economica sia immune da limiti di metodo ed anche da limiti conoscitivi, a causa della pigrizia mentale dei suoi chierici. Però, imputare solo alla natura relativistica della teoria economica la causa dei presunti fallimenti del disegno europeo è fuorviante; una simile critica solleva solo perplessità, considerato che la pretesa di ricondurre la modernizzazione del nostro Paese al ricupero delle sue tradizioni è fuori da ogni reale prospettiva di una sua crescita e di un suo sviluppo; in realtà, la pretesa di Pozzi non è altro che un’ovattata accanita difesa degli interessi e dei privilegi costituiti, unici responsabili dello “sfascio” in cui versa l’Italia.

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