Disuguaglianze, welfare e fiscalità

13 Maggio 2015
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Gianfranco Sabattini

Sul numero 14/2015 di “Left” sono pubblicati alcuni articoli sul problema delle disuguaglianze distributive e della povertà; all’editoriale di Ilaria Bonaccorsi (“Ragionamenti di base: le disuguaglianze non sono accidenti”), seguono gli articoli di Chiara Saraceno (“Chi sono i poveri e cos’è la povertà”), di Nicolò Cavalli (“Tassare i poveri per non tassare i ricchi”) e di Ernesto Longobardi (“Cosa fare per correggere le disuguaglianze”). Tutti gli articoli hanno come comune denominatore la critica delle disuguaglianze riconducibili per lo più alla cattiva gestione del welfare, associata ad una carente spesa pubblica e ad un’irrazionale politica fiscale.
La Bonaccorsi, nel suo editoriale, dichiara l’intento di voler cercare di “rincastrare qualche ragionamento di base, così tanto per cominciare ad erodere un po’ di imbecillità”, per affermare che la povertà non è dovuta ad “accidenti” o all’egoismo umano, ma a “scelte sbagliate di precisi governi fatti da pochissimi uomini che, in effetti, oscillano tra errori e disonestà”; fatti, questi, che causano il depotenzimento dell’efficienza e dell’efficacia del sistema di sicurezza sociale esistente. Gli altri articoli denunciano le conseguenze negative connesse alla insufficiente considerazione della stretta interdipendenza esistente tra caratteristiche del welfare State e caratteristiche e composizione della famiglie (Saraceno), all’esistenza di clausole fiscali difficilmente riconducibili a principi razionali (Cavalli) e all’inefficienza ed eccessiva burocratizzazione della gestione della fiscalità, tali da rendere impossibile una qualsiasi grande riforme (Longobardi).
Ciò che sorprende dell’impegno profuso da “Left” per rimuovere l’”imbecillità” diffusa e radicata sul problema delle disuguaglianze sociali, dovute – come sottolinea la Bonaccorsi - ai meccanismi perversi esistenti tra potere economico e potere politico che determinano la scelta di mantenere costante lo stato delle cose ed ai rapporti, ugualmente perversi, esistenti tra cultura dominante e sistema dell’informazione, sempre per la conservazione dello status quo, è il fatto che non venga mai considerata l’ipotesi che sia l’esistente welfare State in sé a risultare inidoneo a consentire l’attuazione di una politica pubblica orientata alla rimozione degli squilibri sociali.
Chiara Saraceno, dopo aver ricordato, rifacendosi alle tesi di Amartya Sen, che la povertà affligge le persone quando le risorse a loro disposizione sono così ridotte da compromettere persino la loro capacità di immaginare di poter cambiare la propria condizione e di poter controllare il proprio orizzonte di vita, sottolinea come la povertà materiale possa anche ridurre, o impedire, di partecipare alla vita sociale e politica; ed è proprio per queste conseguenze non materiali che la povertà costituisce, secondo la Saraceno, “non solo un problema morale, e neppure solo un problema di equità o giustizia sociale, ma anche un problema di democrazia”.
La crisi economica iniziata alla fine del 2007 ha prodotto un peggioramento dei livelli di vita di una quota considerevole della popolazione italiana; il peggioramento è comprovato dall’aumento della povertà assoluta, cioè di quella forma di indigenza definita dall’impossibilità di accedere al consumo di un paniere di beni essenziali. L’incidenza di questo tipo di povertà, infatti, – osserva la Saraceno – è peggiorata, passando dal 4,1% della popolazione nel 2007, al 7,9% nel 2013. Ciò è accaduto perché, negli anni della crisi, non è aumentato solo il numero dei disoccupati e delle famiglie formate da adulti privi di lavoro, ma anche quello dei cosiddetti lavoratori poveri (working poors) e delle famiglie povere (working poor families), caratterizzate dalla presenza in esse di un occupato.
Questa situazione di povertà assoluta diffusa e crescente prefigura, se non vi si porrà rimedio, il rischio che si “produca uno squilibrio tra redditi da lavoro e bisogni familiari”; rischio, questo, la cui probabilità di materializzarsi è destinata a divenire tanto più alta, quanto più scarsi sono i trasferimenti pubblici necessari per porre rimedio alla crescita delle disuguaglianze; è questa la ragione per cui, secondo la Saraceno, quel rischio deve essere tenuto costantemente sotto controllo, per non compromettere la tenuta complessiva del sistema sociale.
Ciò è tanto più necessario, se si tiene conto - come osserva Nicolò Cavalli – del fatto che anche in Italia, come in molti altri Paesi economicamente avanzati, operano meccanismi per cui i ricchi diventano sempre più ricchi e pagano sempre meno tasse. “Le statistiche sulle dichiarazioni dei redditi del 2013, di recente pubblicate dal Ministero dell’Economia – afferma Cavalli – […] mostrano come l’1% nostrano (i 152 mila cittadini che vantano un reddito dichiarato sopra i 150 mila euro) finisca per versare il 10,2 per cento del gettito totale. Quasi quattro volte in meno di quanto accade negli Stati Uniti, dove l’1% contribuisce per il 38,1 per cento del gettito totale”. Il meccanismo divaricante, che opera con ritmi diversi in quasi tutti i Paesi capitalistici avanzati, è la conseguenza del fatto, conclude Cavalli, che tra il 1975 e il 2001 le principali riforme in essi realizzate “hanno assecondato le preferenze dei gruppi più ricchi”, sulla base dell’assunto che più un Paese è disuguale, con la ricchezza nelle mani di pochi, più le disuguaglianze, in assenza di un’adeguata tassazione della ricchezza, possono divenire il motore della crescita.
Ernesto Longobardi, dal canto suo, si chiede cosa si dovrebbe fare per correggere le disuguaglianze; egli osserva giustamente che l’uso della fiscalità, per togliere ai ricchi a vantaggio dei poveri, non è poi così semplice come si è indotti spesso a credere. Ciò perché i ricchi sanno proteggere in mille maniere la loro ricchezza; è questa la ragione per cui “è naufragata l’idea, che ha ispirato nel secolo scorso gran parte del pensiero progressista, di un’imposta sul reddito onnicomprensiva”, con l’applicazione di aliquote progressive al crescere del reddito”. L’idea – afferma Lomgobardi – non è “stata mai pienamente realizzata ed è andata in pezzi negli ultimi decenni con la globalizzazione”.
Alla mancata piena applicazione del modello di un’imposta progressiva sul reddito ha corrisposto una riforma, “diluita” nel tempo, fondata sul modello di un’”imposta duale”, consistita nel separare i redditi da lavoro da quelli di capitale, colpendo i primi con aliquote crescenti e i secondi con un’aliquota costante non progressiva.
A parte le resistenze che i ricchi non mancherebbero di opporre agli eventuali tentativi di sottoporli a maggiori prelievi fiscali, Longobardi osserva che il ricorso alla fiscalità per realizzare una maggiore equità distributiva porrebbe notevoli problemi d’ordine pratico nella gestione dei tributi; problemi, questi, che si collocherebbero dal lato dell’amministrazione del fisco, per via della sua organizzazione talmente burocratizzata ed inefficiente da render insicuro che quanto tolto ai ricchi possa essere distribuito a favore dei poveri. Per le ragioni esposte (resistenza dei ricchi a una più equa ridistribuzione del reddito e inefficienza dell’amministrazione fiscale), Longobardi conclude, quasi rassegnato, che per correggere le ineguaglianze, più che a grandi riforme tributarie ci si dovrebbe accontentare di “aggiustare ciò che può essere aggiustato”.
E’ un vizio della sinistra quello di collocare la soluzione del problema della lotta contro le ineguaglianze sociali all’interno di un quadro istituzionale imperniato sull’intangibilità del welfare State esistente. Questo modo di affrontare il problema delle disuguaglianze equivale a “pestare acqua nel mortaio”; cioè, ripetendosi e “parlandosi addosso”, senza prendere in seria considerazione il patrimonio di idee che la parte della sinistra più progressista ha da tempo concorso ad “accumulare”, per spiegare come sia necessario, nelle attuali condizioni di operatività dei sistemi capitalistici, cambiare registro riguardo alle modalità con cui andare oltre l’attuale welfare State.
La necessità di cambiare il ruolo dello Stato nell’organizzazione della sicurezza sociale è imposta dalla configurazione che il capitalismo ha assunto con l’avvento del pensiero neoliberista e della globalizzazione. Il neoliberismo ha messo in discussione le condizioni cui aveva dovuto sottostare il capitalismo dopo la fine del secondo conflitto mondiale, determinando così la compressione delle richieste sociali, in particolare di quelle volte ad ottenere il finanziamento delle politiche di pieno impiego; la globalizzazione, dal canto suo, ha consentito alle imprese che si sono internazionalizzate di approfondire in termini capitalistici le loro combinazioni produttive, a spese però di una disoccupazione strutturale ed irreversibile della forza lavoro.
A fronte delle mutate condizioni operative dei moderni sistemi economici, come si può pensare di poter rimuovere le disuguaglianze, facendo affidamento su un welfare orientato a realizzare un improbabile pieno impiego attraverso una spesa pubblica, la cui copertura non può essere più garantita dai prevalenti sistemi fiscali, gravanti prevalentemente sul reddito da lavoro a vantaggio dei redditi di capitale? La risposta non può che ribadire la necessità che la sinistra torni a discutere seriamente sull’opportunità di introdurre un reddito di cittadinanza, a supporto o in sostituzione del welfare esistente, liberando il discorso dai tabù sinora prevalsi per riflettere sulle modalità di finanziamento della riforma del welfare.

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