Benicomunismo e nuova democrazia

7 Luglio 2015
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Gianfranco Sabattini

A fronte delle disuguaglianze e dello sfrenato individualismo dell’imperante neoliberismo dei sistemi economici capitalistici, cresce l’interesse e la militanza in favore del “movimento benicomunista”; ne fanno fede i numerosi saggi che appaiono sempre più di frequente sull’argomento. Nel loro recente libro, Pierre Dardot e Cristian laval (“Del comune o della Rivoluzione del XXI secolo”) sottolineano la necessità di favorire la costituzione di spazi istituzionali per il contenimento delle disuguaglianze, attraverso il rovesciamento dei rapporti di forza tra appropriazione esclusiva (privata o pubblica) e appropriazione sociale, al fine di rendere possibile la gestione e l’uso diretto dei beni comuni. Le critiche sinora formulate dal “movimento” contro i regimi proprietari vigenti non sembrano suggerire “buone pratiche accompagnate da un’ottima teoria” sull’uso e soprattutto sulla gestione di tali beni.
Uno dei problemi concernenti il discorso sui beni comuni è il fatto che la loro natura, il loro uso e la loro gestione sono ancora riconducibili ai principi che la teoria economica tradizionale ha elaborato con riferimento alla classe onnicomprensiva dei cosiddetti beni pubblici. Questi ultimi (o i servizi da essi resi) sono quei beni di proprietà dello Stato il cui consumo a livello individuale si riferisce al totale consumato dai componenti di un’intera comunità, secondo una condizione di “parità” e non di “somma”, come avverrebbe nel caso di beni di consumo privati.
In un sistema economico a decisioni decentrate, in cui coesistono (con esclusione dei cosiddetti beni d’uso civico, d’origine medioevale) “beni privati” e “beni pubblici”, non sempre sussistono le condizioni perché il mercato renda conveniente l’utilizzazione dei beni pubblici per la produzione di servizi secondo la quantità e la qualità desiderate dai consumatori. In questo caso, il mercato concorrenziale fallisce e ad esso supplisce lo Stato che, attraverso procedure istituzionali, provvede, in linea di principio, alla produzione e alla distribuzione dei servizi resi dai beni pubblici, con risultati tendenzialmente prossimi a quelli del mercato di concorrenza.
Esistono dei beni pubblici, i cosiddetti “beni pubblici di merito”, che forniscono servizi il cui consumo è “obbligatorio”. Ciò accade quando il livello minimo di consumo dei servizi resi da tale classe di beni è inferiore a un dato standard, per cause imputabili a “conoscenza imperfetta” o a “comportamenti opportunistici”; fenomeni, questi, che, quando si verificano e non sono rimossi, provocano un danno all’intera comunità di appartenenza dei consumatori.
La natura dei beni pubblici di merito non deriva tanto dall’obbligatorietà del consumo dei servizi resi, ma dal fatto che il consumo di questi avviene in presenza di “rapporti diretti e di reciprocità” tra tutti i consumatori, attraverso la percezione di “uno stato di bisogno indivisibile”, comune ad un’intera collettività di soggetti. In questo caso, ciascun consumatore, in condizioni di reciprocità, avverte il proprio stato di bisogno congiuntamente agli stati di bisogno degli altri. Questa “intercognizione” origina una “comunione di stati di bisogno”, rendendo appropriata per i beni che la soddisfano, l’espressione di “beni comuni”, indicati dal movimento benicomunista come categoria di beni d’uso collettivo alternativi ai restanti beni, sia privati che pubblici. Inoltre, se si considera che, nel caso dei servizi resi dai beni pubblici di merito, la “presenza meritoria” dello Stato non può “oscurare” l’autonomia valutativa dei consumatori riguardo alla quantità e qualità dei servizi consumati, l’omogeneità dei beni pubblici di merito rispetto ai beni comuni appare ancora più evidente.
Secondo il movimento benicomunista, l’accesso ottimale, libero e partecipato, alla fruizione dei servizi resi dai beni comuni sarebbe impedito dal condizionamento esercitato dalla “tenaglia letale” originata dall’asse fra lo Stato e la proprietà privata, sviluppatosi in modo sempre più esaustivo rispetto ad ogni alternativa alla modernità occidentale (Ugo Mattei, “La legge del più forte”; “Il benicomunismo e i suoi nemici”). A fronte di questa “tenaglia”, per realizzare il libero accesso ai servizi dei beni comuni è necessario rifiutare la tradizionale differenza tra pubblico e privato, senza però che gli stessi beni comuni siano “regolati” da una “terza via” istituzionale, in favore di un’”alternativa di sistema”. Ciò perché, con una possibile “terza via”, accadrebbe che la funzione dei beni comuni sia degradata dal passaggio da una definizione rivoluzionaria e innovativa ad una di per sé fallimentare, compatibile con un funzionamento del sistema sociale in cui il mercato ha reso omogeneo a sé lo Stato.
I beni comuni, veicolando una visione del mondo ed un’idea di società differente da quella evocata dai due concetti tradizionali di Stato e di mercato, non potrebbero essere salvaguardati da una prospettiva di azione politica finalizzata al perseguimento di una sviluppo perfettamente prefigurato dal mercato. Allo stato attuale, perciò, considerato il potere del mercato e la subalternità ad esso dello Stato, è necessaria, al contrario, un’azione politica locale e globale, sorretta da opportune riforme istituzionali.
Le critiche benicomuniste e le proposte suggerite per innovare l’attuale struttura istituzionale e produttiva dei sistemi sociali ad economia di mercato sono però poco realistiche e sono rese poco intelligibili dalle “spesse nubi” ideologiche che le avvolgono. In linea di principio, contro la critica radicale dei benicomunisti, si può osservare che il dominio attuale esercitato dal mercato sullo Stato non è irreversibile e che la sua reversibilità rende plausibile pensare ad una progettualità politica non ideologizzata.
All’interno dei sistemi sociali a decisioni decentrate, questa progettualità innovativa può essere realizzata attraverso una riforma dei sistemi proprietari vigenti: proprietà comune, proprietà statale e proprietà privata rappresentano un “continuum di regimi proprietari”; pertanto la convenienza al loro mutamento, per favorire - come affermano Dardot e Laval - la formazione di spazi nei quali sia possibile il governo diretto dei beni comuni da parte dei componenti una data comunità, può essere valutata ricorrendo all’”analisi economica del diritto”. Questo tipo di analisi costituisce un’importante integrazione dell’analisi economica, quando deve essere valutata la congruità delle relazioni tra il quadro istituzionale ed i comportamenti economici.
L’efficienza economica correlata ad un processo di cambiamento del quadro istituzionale dei sistemi sociali richiede che i diritti di appropriazione delle risorse siano strutturati e collegati ad un “sistema di premi e sanzioni” idoneo a motivare tutti gli operatori a realizzare un uso razionale delle risorse. Tutto ciò può avvenire a condizione che il cambiamento sia deciso all’interno di un quadro istituzionale fondato sulla regola democratica; un sistema sociale illiberale deve perciò precedentemente democratizzarsi, oppure uno Stato subalterno al mercato deve precedentemente affrancarsi.
In Italia, le critiche del movimento benicomunista sono state sinora formulate contro gli effetti della struttura giuridica proprietaria esistente; questa, in effetti, a causa dell’egemonia della logica capitalista, ha favorito un processo di privatizzazione delle risorse, strumentale rispetto alla ristrutturazione del capitalismo internazionale. A partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, infatti, all’insegna del “terribile diritto” di proprietà privata, è stata realizzata la distruzione dell’economia pubblica e la privatizzazione di buona parte del patrimonio pubblico, col misconoscimento di alcuni dettati costituzionali che ne salvaguardavano la funzione sociale.
Di fronte a questo processo di privatizzazione, le critiche del movimento benicomunista si sono però limitate a sottolineare la necessità di “rovesciare” i rapporti di forza consolidatisi tra proprietà esclusiva (dei privati, prevalentemente) e proprietà comune; ciò al fine prevalente di ricuperare il mandato costituzionale, sulla base di proposte volte a garantire una maggiore equità distributiva, realizzata con l’allargamento dell’area dei beni comuni, ma senza coniugare tale obiettivo con l’esigenza di assicurare ai beni comuni l’efficienza nel loro uso e nella loro gestione.
Le critiche dei benicomunisti, perciò, potrebbero risultare alla fine sterili, rispetto al conseguimento dell’obiettivo di porre rimedio a tutte le disfunzioni connesse all’allargamento crescente della privatizzazione delle risorse. Tali critiche, infatti, appaiono essere quasi delle “scatole vuote”, utili solo a mobilitare sul piano ideologico l’opinione pubblica contro gli esiti negativi della logica capitalistica; ciò perché esse sono prevalentemente orientate contro gli esiti indesiderati del funzionamento dei sistemi capitalistici attuali, senza contemporaneamente prospettare in che modo, una volta costituita, la categoria dei beni di proprietà comune può essere salvaguardata dal rischio di “subire le pene” della “tragedia dei commons”, sottraendola al pericolo d’essere esposta, alternativamente, a sovraconsuno o a sottoutilizzazione, con pregiudizio degli stati di bisogno dei loro potenziali fruitori.
 

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