Il paradosso greco

29 Luglio 2015
2 Commenti


Gianfranco Sabattini

Dopo il contributo di ieri dell’Avv. Lucia Pagella, continuiamo la riflessione sulla Grecia con questo intervento del Prof. Gianfranco Sabattini, autorevole economista dell’Ateneo cagliaritano.

Il governo greco, dopo il risultato del referendum, aveva deciso di respingere le condizioni della troika e di non pagare le rate dei debiti in scadenza; le banche erano state chiuse ed era stato imposto un tetto per i prelievi col bancomat. Tuttavia, in diretta TV il premier greco aveva difeso la decisione di indire il referendum: noi abbiamo chiesto ai cittadini – aveva affermato Tsipras – cosa fare e di respingere il piano di austerità che ci viene proposto.

Poiché il referendum si era chiuso con una larga maggioranza dei “no”, Tsipras era convinto che in tal modo potesse continuare i negoziati da posizioni di maggiore forza. Le dichiarazioni del premier greco, dopo il referendum, esprimevano un inspiegabile paradosso: il risultato della consultazione popolare metteva a rischio la permanenza delle Grecia nell’area dell’euro, sebbene un sondaggio, condotto dall’Università della Macedonia, come riportato in un articolo di Maria Ottaviani (“Exodos o non exodos. Molti escludono l’uscita della Grecia dall’eurozona, più di tutti i Greci”) apparso sul n. 60/2015 di “East”, l’84% della popolazione ellenica fosse fermamente convinto che bisognava restare nell’eurozona, anche a costo di firmare un nuovo programma di prestiti, contro appena il 13% di contrari e il 4% di indecisi. Ignorando l’orientamento della maggior parte dei greci, Tsipras, col referendum, aveva giocato d’azzardo, perché convinto che l’intento di Bruxelles non fosse volto a “buttar fuori” la Grecia dall’euro, ma orientato, invece, ad ostacolare che si trovasse, nella prosecuzione dei negoziati per un nuovo piano d’aiuti, “una via alternativa” a quelle sino ad allora percorse. Forte di questo convincimento, il presidente greco restava aperto alla ripresa delle trattative, ma non escludeva che la Grecia potesse uscire dalla moneta unica, sebbene ci fosse nel Paese la consapevolezza che, fuori dall’euro, la situazione potesse ancora peggiorare, anche per la perdita di credibilità internazionale alla quale la Grecia si era esposta negli ultimi mesi.

Alla vigilia del referendum, l’agenzia di rating americana Standard & Poor’s aveva ulteriormente declassato la Grecia, per via dell’aggravamento della sua situazione finanziaria, che aveva determinato un peggioramento della solvibilità del suo debito a lungo termine; era opinione di molti osservatori che il declassamento equivalesse a un “default” certo, che poteva portare il Paese al fallimento nei successivi dodici mesi, se non si fosse raggiunto un accordo con i creditori ufficiali.

Se ciò fosse accaduto e la Grecia fosse stata esclusa dall’eurozona, la prima conseguenza sarebbe stata quella di mettere il Paese ellenico nella condizione di trovarsi, sia pure per un tempo breve, senza una moneta di riferimento; l’esecutivo avrebbe avuto bisogno dei tempi tecnici necessari per organizzare e rendere effettivo il ritorno alla Dracma, la quale sarebbe andata incontro ad una svalutazione stimata intorno al 30% rispetto all’euro. Inoltre, nel periodo del passaggio dalla moneta europea a quella nazionale, la Grecia non sarebbe stata in grado di onorare i propri debiti nei confronti dei creditori internazionali; fatto, questo, che la avrebbe esposta al rischio di non avere facile accesso ai mercati dei capitali internazionali, aggravando la sua capacità di riorganizzare il proprio sistema economico, a causa della “pesante” situazione del suo settore pubblico, il cui debito, pari al 180% del PIL, non sarebbe stato sostenibile neppure fuori dall’euro.

La valutazione realistica da parte di Atene e Bruxelles di tutta la situazione che era venuta a crearsi non poteva non giustificare la necessità che si tornasse al punto in cui la trattativa era stata interrotta, non per proseguire le defatiganti formulazioni delle proposte e controproposte, ma per privilegiare il percorso della via alternativa evocata da Tsipras. Al riguardo, è interessante e convincente la proposta avanzata da Paolo Savona, pubblicata sul Blog “formiche” all’inizio di luglio (“Grecia, ecco la soluzione europea per i debiti pubblici in eccesso”); la proposta meritava attenzione perché ragionevole sul piano della sua accoglibilità, ma anche in considerazione del fatto che Savona era al di sopra di ogni sospetto circa le dure critiche che egli ha sempre rivolto contro i “guardiani” dell’euro. Secondo Savona, la via alternativa poteva consistere nell’aprire una trattativa per delineare un accordo europeo, valido per tutti, su come trattare i casi simili a quello della Grecia, semmai se ne fossero presentati altri in futuro: ciò poteva “essere fatto mettendo innanzi tutto in sicurezza banche e debito greco per il tempo necessario a raggiungere un accordo generale. Poi agire dal lato della domanda aggregata e dell’occupazione collegando la politica di quantitative easing della BCE alla realizzazione del Piano Juncker, avvalendosi della collaborazione della BEI”.

In questo modo, sarebbe stato possibile esplicitare la volontà dell’UE di volersi muovere nella direzione “dell’attuazione dello scopo dei suoi Trattati, pace e benessere, recuperando parte della credibilità perduta con le politiche di rigore fiscale di tipo puramente contabile e le riforme per esportare di più”. In luogo di queste politiche e di queste riforme, secondo Savona, l’Europa doveva creare un “fondo europeo”, da affidare in gestione alla BCE, perché accogliesse gli eccessi di indebitamento pubblico oltre una certa soglia, rendendo così “possibile l’applicazione del pareggio di bilancio previsto dal fiscal compact” e negoziando con ciascun Paese il rimborso del debito nei tempi e con i ritmi permessi dalle condizioni in cui versasse ciascun Paese. “Questa sarebbe stata la vera unione fiscale, non quella di continuare a fingere che la sovranità fiscale resti in mano ai Paesi membri”, ma esercitabile solo sotto autorizzazione e controllo degli organi dell’UE; una soluzione, questa, “che perpetua i difetti che stanno portando l’euro e l’Unione al collasso”.

La contrarietà di Bruxelles a ratificare un accordo aperto all’accoglimento della proposta di Savona sarebbe stata giustificata sulla base del convincimento che, in tal modo, i Paesi adusi al lassismo finanziario pubblico non sarebbero stati dissuasi dal continuare a conservarlo. La soluzione indicata da Savona avrebbe dato alla Commissione anche “la legittimazione di intervenire senza espropriare a priori la sovranità fiscale dei Paesi membri a favore della burocrazia europea sotto la spinta dei mercati”. Tra l’altro, se fosse stata accettata, la proposta avrebbe marcato una profonda differenza rispetto a quella che, sul futuro dell’Unione Monetaria, avanzano nel loro rapporto i 5 Presidenti (Jean-Claude Juncker (Commissione europea), Donald Tusk (Consiglio europeo), Jeroen Dijsselbloem (Eurogruppo), Mario Draghi (Banca centrale europea) e Martin Schulz (Parlamento europeo); essi spiegano che il progetto della moneta unica deve essere portato a compimento nei prossimi dieci anni, al fine di garantire una maggiore trasparenza e legittimazione delle politiche nazionali, grazie al rafforzamento delle istituzioni. Il rapporto dei “5”, conclude Savona, rimandando al 2025 la tanto agognata realizzazione dell’unione politica, sta solo ad indicare che l’Unione sino ad allora dovrebbe procedere nella direzione che ha irritato i cittadini europei, creando condizioni difficili da governare, che potrebbero portare all’abbandono definitivo del sogno di un’Europa unita.
In conclusione, sarebbe stato opportuno che Tsipras avesse giocato meno d’azzardo e avesse rinunciato all’idea di poter partecipare ai negoziati avvalendosi delle presunte posizioni di forza acquisite con la vittoria del “no” referendario; al tavolo dei negoziati, Tsipras non avrebbe dovuto pensare di potersi sedere come se si fosse trattato di una “partita a poker”, dove i tecnocrati europei, “cani da guardia” dei creditori, avrebbero sempre avuto la meglio. Tsipras, al contrario, avrebbe dovuto, come si suole dire, “rompere il tavolo”, invocando la sostituzione del “mazzo” delle regole tecniche per la regolazione dei debiti con quello delle regole politiche, invocando le necessità che il problema greco fosse risolto all’interno del più ampio problema della unione politica, la cui soluzione non fosse rimandata al 2025, ma fosse ricercata da subito, applicando nell’immediato la proposta di Savona.

2 commenti

  • 1 marco ligas
    29 Luglio 2015 - 13:18

    Caro Gianfranco,
    nell’ultimo numero del manifesto sardo ho scritto così: Tsipras non trattava in condizioni di parità con i suoi interlocutori: aveva a che fare con i prin¬ci¬pali espo¬nenti poli¬tici della Repub-blica fede¬rale. Il loro obiettivo era chiaro sin dall’inizio, intendevano (e naturalmente intendono) imporre la superiorità tedesca nelle relazioni tra i Paesi della comunità europea e assumere gli interessi del mercato e delle banche come gli unici strumenti della contrattazione. In situazioni come queste è possibile arrivare a dei compromessi?
    Certo, c’è da chiedersi come possa essere accettata dai diversi part¬ner euro¬pei, a partire dalla Fran¬cia, la poli¬tica di potenza che Ber¬lino intende imporre e consolidare all’interno dell’Unione.
    Non è in gioco soltanto un braccio di ferro tra Atene e l’Unione europea, ma tra la Germania (e pochi altri) e L’Unione europea nel suo complesso. Gli interessi tedeschi non coincidono con quelli più generali della comunità. Questa incompatibilità dovrebbe sollecitare in tutti i partner europei la ricerca di una maggiore autonomia per arrivare a soluzioni condivise che siano funzionali agli interessi e ai bisogni di tutti.
    Perché non proviamo a rimettere in discussione il debito pubblico, perché non rivendichiamo, con determinazione, il suo ridimensionamento e perché non proponiamo una politica che dia priorità al problema dell’occupazione e dei diritti. L’unione Europea, così come sta andando avanti, è un fallimento, siamo ben lontani dagli obiettivi condivisi nei decenni precedenti.
    Insomma, io rimetterei la politica al primo posto.

  • 2 Gianfranco Sabattini
    29 Luglio 2015 - 22:33

    Caro Marco, tu affermi che la politica dovrebbe mettere al centro della sua azione la considerazione del debito pubblico. Giusto! Per ridurre il debito pubblico occorre soddisfare un sistema di condizioni che, allo stato attuale, per il nostro Paese, risulta impossibile; potrebbe soddisfarlo quel sistema solo “godendo” della “solidarietà” europea, orientando le risorse che eventualmente gli dovessero essere messe a disposizione verso il riavvio del motore della crescita. Qui casca l’asino! L’Italia, autonomamente dall’Europa, non dispone delle risorse necessarie; per procurarsele dovrebbe ricorrere all’indebitamento pubblico, che però è precluso dalle “richieste” europee di effettuare riforme interne (tra le quali primeggia la riduzione della spesa pubblica), al fine di evitare l’ulteriore aggravamento del debito pubblico. Sai perché l’Europa mostra tanto interesse alle riforme? I mercati finanziari egemoni, su cui è appiattito il processo di unificazione politica dell’UE, non vogliono settori pubblici indebitati; li vogliono il più possibile solventi, in modo che siano sempre in grado di pagare le rate dei mutui in scadenza, pena il declassamento del Paese. Grecia docet! Sull’opportunità di discutere sul come uscire dal “cul de sac” all’interno del quale si è cacciato il Paese sono d’accordo e si potrà farlo anche grazie al tuo impegno editoriale.

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