Riforma bancaria e crescita regionale

12 Agosto 2015
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Gianfranco Sabattini

L’analisi del rapporto tra intermediazione bancaria e processo di crescita e sviluppo economico è solitamente effettuata, sia attraverso modelli di derivazione schunpeteriana che attraverso modelli di crescita endogena. I primi assumono che la crescita e lo sviluppo siano il risultato di una maggiore produttività dell’intermediazione bancaria promossa dal progresso tecnologico; mentre per i secondi il contributo delle istituzioni finanziarie (le banche) alla promozione della crescita e dello sviluppo sarebbe dovuto alle attività di monitoraggio e di raccolta di informazioni delle stesse istituzioni sul contesto economico e sociale, al fine di trasformare e diversificare il risparmio raccolto in funzione delle linee di credito da concedere, facilitando così l’accesso ai mercati finanziari.
Inoltre, i modelli di derivazione schumpeteriana presuppongono che l’attività delle banche debba limitarsi a monitorare e valutare la qualità dei progetti di finanziamento per assicurare, di conseguenza, il collegamento tra attività di raccolta e attività d’impiego del risparmio; i secondi, invece, ponendo l’accento sull’accumulazione di capitale come fattore determinante del sostegno del processo di crescita e di sviluppo, presuppongono che l’intermediazione finanziaria favorisca la crescita e lo sviluppo, riducendo, grazie al monitoraggio e alla raccolta d’informazioni sul contesto economico e sociale, l’incertezza e l’aumento del volume delle risorse da “canalizzare” verso il finanziamento della domanda di credito.
Queste ultime considerazioni sui modelli di crescita endogena sono considerate da Salvatore Perri, in un recente articolo, pubblicato sul n. 1-2/2014 della “Rivista Economica del Mezzogiorno” (Gli effetti delle trasformazioni del sistema bancario sulla crescita economica delle regioni italiane), rilevanti per il finanziamento del processo di crescita e sviluppo regionale e locale; ciò perché le banche, che raccolgono risparmio a livello locale, entro certi limiti e nel rispetto degli obblighi di legge riguardo alle riserve obbligatorie, possono “creare credito”, aumentando il volume complessivo delle risorse finanziarie disponibili e segmentando la loro offerta nei confronti degli utilizzatori, in funzione della rischiosità dei finanziamenti concessi.
Perri sottolinea come i modelli di accumulazione endogena si rivelino particolarmente idonei per una migliore spiegazione del come l’intermediazione bancaria possa contribuire al finanziamento del processo di crescita e sviluppo locale, in condizioni di maggior sicurezza: innanzitutto, perché le attività bancarie, dotate di maggiori informazioni sul contesto in cui operano, riducono l’incertezza, per cui sono motivate ad aumentare l’ammontare complessivo delle risorse da destinare al finanziamento delle linee di credito richieste; in secondo luogo, perché le banche, attraverso le conoscenze delle quali dispongono, valutando meglio i progetti d’investimento, possono, da un lato, essere spinte a “creare” un maggior volume di risorse finanziarie e, dall’altro, scegliere i progetti che presentano il maggior rendimento; infine, perché le banche possono “stimolare” il tasso di crescita della formazione del risparmio, in considerazione del fatto che una più alta rimunerazione delle risorse sottratte al consumo corrente può promuovere una maggiore accumulazione di capitale.
Dal punto di vista del sistema economico italiano, quanto sin qui detto è significativo, in quanto consente di capire la persistenza al suo interno dello squilibrio tra le regioni del Centro-Nord e quelle del Sud; squilibrio che rende di difficile attuazione qualsiasi politica pubblica volta a promuovere l’apporto delle istituzioni finanziarie al processo di crescita e sviluppo delle regioni arretrate. Il possibile apporto è stato reso ancora più difficile dalle trasformazioni che sono intervenute nelle istituzioni finanziarie, non solo a causa di riforme normative, ma anche e soprattutto per via dall’approfondimento del processo d’integrazione delle economie nazionali nel mercato internazionale.
La globalizzazione, sul piano interno, ha determinato un susseguirsi di fusioni e di acquisizioni che ha penalizzato le banche localizzate nelle aree a maggiore rischiosità bancaria, con la conseguenza che le banche nazionali, pur acquisendo le banche locali, hanno continuato a conservare queste ultime come sportello di raccolta del risparmio; la nuova organizzazione del sistema bancario ha fatto aumentare la probabilità che il risparmio raccolto nelle regioni meridionali fosse trasferito altrove, comportando un effetto ridistributivo del risparmio dalle regioni povere di risorse finanziarie e a bassa crescita a vantaggio delle regioni ricche.
La probabilità che il processo ridistributivo “penalizante” per le regioni meridionali si sia realmente verificato è resa alta dal fatto che le banche nazionali, potenziatesi con le acquisizioni e le fusioni, si sono prevalentemente orientate a finanziare i “gruppi industriali” che, con l’inizio del processo di privatizzazione, hanno preferito acquisire la proprietà delle imprese pubbliche dismesse, anziché finanziare la crescita e contribuire alla rimozione del dualismo tra le regioni del Cntro-Nord e quelle del Sud; in conseguenza di ciò, il finanziamento della domanda locale di credito è stato prevalentemente assegnato alle “banche minori” (Banche popolari e di Credito cooperativo), che hanno assunto il carattere assai debole di banche territoriali.
A completare l’indebolimento della funzione bancaria all’interno delle regioni meridionali ha concorso, come sottolinea Perri, anche l’impatto negativo che gli accordi di Basilea hanno avuto sul ruolo dell’intermediazione bancaria ai fini del supporto del processo di crescita e di sviluppo locale; i provvedimento contenuti in questi accordi hanno comportato un affievolimento del margine di manovra delle banche, imponendo “una maggiore attenzione alle garanzie reali offerte dai clienti nonché una minore esposizione al rischio”. L’applicazione di questi criteri al caso dell’Italia, infatti, non può che significare un “ulteriore peggioramento delle condizioni di accesso al credito nelle regioni a maggior rischio”.
A livello di Unione Europea, risale all’inizio del 2014 la proposta di introdurre nuove norme per assicurare l’equilibrio tra stabilità finanziaria ed erogazione di prestiti all’economia reale, al fine di supportare competitività e crescita equilibrata dei sistemi economici; ma, a pochi mesi dall’assunzione delle sue funzioni di nuovo commissario europeo ai mercati finanziari, Jonathan Hill si è solo preoccupato di proporre di non mandare avanti il delicato dossier sulla nuova disciplina bancaria avviata circa un anno fa dall’ex commissario Michel Barnier: progetto avversatissimo dai grandi “bankster” di Germania, Francia e Gran Bretagna, il cui unico interesse è “fare soldi” a danno dei Paesi in difficoltà e la cui unica preoccupazione è quella di salvaguardare i crediti vantati nei confronti del Paesi indebitati da ogni possibile default.

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