Perché la Cina ha svalutato lo yuan?

7 Settembre 2015
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Gianfranco Sabattini
Cosa ha spinto le autorità cinesi a svalutare lo yuan? La svalutazione potrebbe essere vista come una decisione che si inserisce in un quadro più ampio. Così hanno voluto presentarla i cinesi, e così l’hanno considerata, seppure in modo non univoco, molti osservatori internazionali. E’ realistico, tuttavia, ipotizzare che le svalutazioni succedutesi nella seconda settimana di agosto debbano essere viste dal punto di vista interno ed esterno alla Cina.
Dal punto di vista interno, il deprezzamento dello yuan risulterebbe incomprensibile se non si tenesse conto del fatto che il grande Paese asiatico – come osserva Mariana Mazzucato su “la Repubblica” del 21 agosto – (“Se l’ultima rivoluzione cinese fa tremare l’economia mondiale”) - nella prima metà del 2015 ha avuto un tasso ufficiale di crescita stimato intorno al 7%; questo risultato, per quanto possa apparire inconfrontabile con gli striminziti tassi di crescita di molte economie occidentali, risulta pari alla metà di quello registrato nel 2007;  a partire da quest’anno, il tasso ha iniziato a decrescere pressoché costantemente. Una flessione, questa, che, considerata nel contesto di un’economia mondiale in difficoltà, non avrebbe dovuto sollevare alcuna preoccupazione per le autorità cinesi.
Sennonché, osserva la Mazzucato, negli anni compresi tra il 2007 ed il 2015, la crescita dell’economia della Cina non è stata “trainata” dalle esportazioni come era avvenuto negli anni precedenti il 2007, ma dagli “investimenti, ai quali va ascritta, anno dopo anno, più di metà della crescita nel periodo 2004-2014”. Di conseguenza, le svalutazioni possono in primis essere interpretate come il tentativo della Cina di inaugurare una stagione di riforme strutturali per una ricomposizione più equilibrata della struttura della propria economia reale; quindi, pur non dovendo escludersi che nell’immediato le riforme possano determinare un’ulteriore diminuzione del tasso di crescita, non è però da trascurare la possibilità che con le svalutazioni la Cina abbia voluto, almeno in parte, attenuare la contrazione del tasso di crescita, facendo ricorso ad un maggior sostegno delle esportazioni mediante il deprezzamento della propria moneta nazionale. Al riguardo, si deve tener conto del fatto che la triplice svalutazione è avvenuta dopo la,pubblicazione dei dati sull’export cinese nel mese di luglio di quest’anno; dati, questi, che giustificherebbero le successive svalutazioni della moneta nazionale per tentare di rilanciare le esportazioni.
A risentire del deprezzamento dello yuan deciso dalle autorità monetarie cinesi è stata soprattutto la maggior parte delle valute asiatiche; in particolare, quelle dei Paesi che presentano le maggiori relazioni storiche con lo yuan. Tuttavia, le autorità cinesi hanno “placato” le preoccupazioni assicurando che una volta che il tasso di cambio della loro moneta nazionale rispetto al dollaro si sarà stabilizzato, la temuta instabilità delle valute asiatiche tenderà a normalizzarsi. Ma il sentimento negativo registrato in questi ultimi giorni dai Paesi asiatici e da molti altri Paesi esportatori e concorrenti della Cina riflette il dubbio che la normalizzazione sia solo un “placebo” che la Cina cerca di somministrare a tutti i Paesi per evitare reazioni indesiderate, che darebbero il via ad una dannosa guerra valutaria. La probabilità che ciò possa accadere è però escluso da molti osservatori, in considerazione del fatto che una guerra delle valute esporrebbe la Cina alla fuga dei capitali, in un momento in cui gli investimenti che deve effettuare risultano strategici ai fini del sostegno del suo ulteriore sviluppo interno.
Dal punto di vista dell’economia globale, è probabile che le svalutazioni di agosto dello yuan siano destinate a sollevare le maggiori conseguenze, non del tutto positive; ciò dipenderà dalle possibili reazioni degli Stati Uniti. Questi ultimi in passato avevano avuto interesse a che la Cina, grazie alla sua moneta sottovalutata, avesse la possibilità di aumentare le esportazioni, sino a consentile, da un lato, di divenire la prima economia mondiale nei comparti produttivi manifatturieri e, dall’altro, di poter finanziare il proprio Tesoro attraverso la sottoscrizione del loro bond da parte della Cina, grazie ai surplus crescenti della sua bilancia commerciale. In tal modo, mentre gli USA aumentavano la loro esposizione verso l’estero, la Cina poteva crescere a ritmi sostenuti, sia pure al prezzo di pesanti squilibri territoriali, settoriali e personali interni.
La crescente espansione della base manifatturiera non era priva di conseguenze per la Cina, la più grave dovendosi rinvenire nel fatto che il mercato valutario nel quale doveva compiere le sue transazioni era quello del dollaro. Ciò comportava che il tasso di cambio ufficiale dello yuan (chiamato anche renminbi) verso il dollaro statunitense fosse fissato giornalmente dalla Banca Centrale di Pechino, lasciando liberi i mercati di regolare le transazioni in presenza di una banda di oscillazione del +/-2% rispetto al cambio fissato. Ciò era avvertito eccessivamente vincolante dagli operatori economici, sino a renderli diffidenti nei riguardi della stabilità della valuta di Pechino e a non renderli disponibili a voler detenere crediti espressi in yuan. Per questo motivo, la Cina da tempo cerca di sottrarsi all’egemonia del dollaro, protesa alla ricerca di possibili alleanze con altri Paesi e, in particolare con la Russia, per creare le condizioni utili alla costituzione di un’area valutaria alternativa a quella del dollaro. Tutto ciò induce ad ipotizzare che le svalutazioni della seconda settimana di agosto abbiano non tanto uno scopo interno, quanto un obiettivo politico e strategico che la Cina intende perseguire a livello mondiale.
Negli ultimi mesi la Cina ha dichiarato esplicitamente che il suo inserimento nel paniere di valute del Fondo Monetario Internazionale, insieme all’euro, al dollaro americano, alla sterlina britannica e allo yen, rappresenterebbe un importante passo simbolico verso la definitiva consacrazione dello yuan come valuta di riserva globale; precondizione, questa, per la costituzione di un’area valutaria dello yuan. D’altra parte, per consentire allo yuan di diventare una moneta forte in grado di competere con il dollaro è necessario che esso sia liberamente trattabile sul mercato libero e non più soggetto a un cambio arbitrariamente fissato in modo più o meno rigido dalla Banca Centrale di Pechino. Questa ipotesi, tra l’altro, risulta conforme con altre mosse compiute dalle autorità cinesi: quali, da un lato, la creazione di una Banca Asiatica di sviluppo e la concorrenza diretta con il Fondo Monetario Internazionale dominato dagli USA e, dall’altro, gli accordi sottoscritti con i cosiddetti Paesi BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), che prevedono che la regolazione dei loro scambi commerciali possano avvenire nelle rispettive valute.
In conclusione, le successive svalutazioni dello yuan risultano coerenti, più che con la preoccupazione di contenere il calo del tasso di crescita attraverso il sostegno delle esportazioni, con la politica estera che la Cina ha inaugurato con l’avvento di Xi Jinping alla segreteria del Partito Comunista Cinese e alla Presidenza della Repubblica Popolare Cinese; a fronte delle mosse di Pechino, viene spontaneo chiedersi: cosa faranno gli USA? Questi, come concilieranno la “dottrina strategica dell’amministrazione Obama, denominata “Pivot to Asia”, per un progressivo ribilanciamento dei loro interessi e della loro presenza dal Medio Oriente verso l’Asia, con le mosse valutarie cinesi?
Agli interrogativi è difficile dare una risposta certa, soprattutto se si tiene conto che il disavanzo commerciale statunitense ha ricominciato a crescere, per via della svalutazione dell’euro e della forte crescita interna. La svalutazione dello yuan, perciò, non può che contribuire ad un possibile peggioramento della bilancia commerciale americana; forse è di questo che la Banca Centrale di Pechino ha tenuto conto. L’aumento dei tassi da parte della Fed (la massima autorità monetaria americana) dovrà essere per il momento congelato, perché se fosse attuato farebbe riversare sul dollaro altri capitali, peggiorando la sua esposizione verso l’esterno.
In questa prospettiva, la mossa di Pechino contribuisce a ridurre il pericolo del deflusso di capitali privati dalla Cina, dei quali come si è detto ha invece bisogno per riequilibrare la propria base produttiva interna. La fuga dei capitali dalla Cina verrebbe scongiurata proprio dalle svalutazioni, perché sarebbero necessari più yuan per comprare un dollaro. Washington, quindi, secondo molti osservatori internazionali, dovrebbe ringraziare Pechino per l’aiuto che riceve nel contenere il suo indebitamento estero; ma il prezzo politico e strategico che Washington è chiamato a pagare sarà l’indebolimento, a vantaggio della Cina, della propria azione di contenimento della politica di potenza di Pechino. Questo stato di cose lascia presagire che le svalutazioni dello yuan non saranno del tutto neutrali a livello dell’intera economia globale.

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