Riformismo rivoluzionario per una democrazia radicale

16 Marzo 2016
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Gianfranco Sabattini

Paolo Flores D’Arcais s’inserisce nel dibattito ideologico-politico svoltosi tra Alain Badiou e Marcel Gauchet su comunismo e socialdemocrazia, il cui testo è stato pubblicato nel n. 1/2016 di “Micromega”.
Secondo Flores D’Arcais, i motivi che inducono ad andare oltre le tesi [quella comunista e quella socialdemocratica] sostenute dai due filosofi francesi sono riconducibili al fatto che, mentre l’ipotesi neo-comunista di Badiou evidenzia il limite di tradursi in un accumulo di desideri teorici (wishful thinking), quella riformista di Gauchet risulterebbe inadeguata e contraddittoria, “solo perché non pone sul tappeto la questione delle rifondazione della rappresentanza [politica], la necessità si sottrarre il suo esercizio alla gilda dei politici di mestiere”. Da qui, il suo tentativo di affermare la riproponibilità dell’ipotesi riformista, a condizione che si parta dal riconoscere che il “monopolio partitocratico delle vita pubblica, e inevitabile mutazione antropologica dei politici in ‘Casta’”, costituiscono l’ostacolo strutturale, dalla cui rimozione dipende il recupero pieno della politica, perché, liberata “dall’attuale subordinazione all’economico, possa divenire orizzonte di identità collettiva e rappresentazione di sovranità”.
Flores D’Arcais ritiene che il “darsi da sé norme e fini”, dimensione specifica della modernità, implica la sovranità democratica per realizzarsi ed “esige istituzioni politiche che approssimino un’esigenza di uguaglianza anche sul piano materiale, superando e abbandonando il punctum dolens della socialdemocrazia, il carattere procedurale della stessa”. Oggi, la deriva “partitocratrica della rappresentanza ha reso fungibili in un ‘grande centro molle e invariante’ i partiti un tempo di destra e di sinistra, proprio perché ha sottratto la rappresentanza ai cittadini facendola diventare autoreferenziale”, trasformando “la rappresentanza dapprima in gilda […] e infine in inamovibile “Casta”.
La risposta alla espropriazione della rappresentanza non può che essere una riforma della rappresentanza stessa, che “renda obsoleto il monopolio dei politici di professione e delle loro macchine elettorali sulla vita pubblica”; fatto, questo, che può essere realizzato solo attraverso una lotta “durissima”, e non con un’autoriforma realizzata dalla Casta al potere. Non basta, però, affermare la necessità del recupero della sovranità della politica, occorre anche individuare “chi“ potrà essere il soggetto in grado di poterlo realizzare.
Per Flores D’Arcais, tale soggetto non può essere individuato nelle socialdemocrazie attualmente esistenti, che da tempo hanno smarrito ogni vocazione riformatrice; deve trattarsi di un soggetto rigorosamente nuovo, che sappia garantire l’”irruzione organizzata delle cittadinanza attiva sulla scena pubblica, della politica come bricolage, e la sua strutturazione istituzionale”. La reinvenzione della democrazia rappresentativa, che vada ben al di là dei partiti tradizionali, diventa perciò “questione ineludibile”, considerato che i politici di carriera sono divenuti vittime della sindrome di weberiana memoria, secondo la quale l’esercizio delle politica come mestiere contamina di sé l’intero organismo, cioè la democrazia. I politici, perciò, non possono più rappresentare i cittadini, perché, dopo essersi “resi omologhi” con un cursus honorum che li ha trasformati in Casta, hanno dato luogo ad una partitocrazia espropriatrice della sovranità politica degli stessi cittadini.
Malgrado le difficoltà, l’”alternativa democratica al professionismo politico” può essere costruita, a patto che siano rimosse, secondo Flores D’Arcais, alcune delle “regole” sulle quali la Casta ha costruito il suo primato, procurando in particolare di “sovvertire l’idea egemone nella filosofia politica che la democrazia sia procedurale, consista solo nel rispetto di istituzioni e regole di funzionamento e non riguardi le politiche sostanziali che nel rispetto di tali procedure verranno istituite”: quali, ad esempio, il divieto della ricerca di finanziamenti, fatta eccezione per le sottoscrizioni personali trasparenti e per importi molto bassi, la gratuità pubblica degli strumenti di comunicazione per tutte le liste, il divieto del carrierismo politico, con l’introduzione di un limite massimo dei mandati politici, l’incompatibilità tra le cariche elettive, tra cariche elettive ed esecutive, tra interessi in conflitto, e tutte le misure atte a rinforzare la condivisione del principio della politica intesa “come servizio civile temporaneo, anziché carriera e lucro”. Tutto ciò perché la democrazia abbia “come unico fondamento le palafitte dell’ethos repubblicano diffuso, che se non costantemente curate e protette e radicate e rafforzate marciscono”.
In una democrazia così intesa, a parere di Flores D’Arcais, è inevitabile il “quasi comunismo”, da intendersi non come proprietà collettiva dei mezzi di produzione, ma come uguaglianza radicale, “non solo di condizioni di partenza ma di costante uguagliamento degli esiti”, dove l’uguaglianza sia posta come tendenza da perseguire. Questa alternativa democratica al professionismo politico non può che essere il risultato di un “riformismo rivoluzionario”, il quale però ha davanti a sé “due ineludibili pietre d’inciampo”: il carattere antinomico della democrazia e l’individuazione del soggetto che può rimuoverlo.
Il primo risulta dal conflitto permanente tra le forze della “coerenza democratica” e quelle dell’”ipocrisia democratica”, che minano la democrazia attraverso la reintroduzione di vecchie e nuove strutture di privilegio politiche e sociali; esso può essere contenuto solo se la difesa delle regole della democrazia è interiorizzata dai cittadini come “sempre e solo come lotta-per-la-democrazia”; mentre il secondo “inciampo”, relativo alla individuazione del soggetto in grado di assicurare la coerenza democratica nel quale si compendia la rivoluzione riformista può essere superato, secondo Flores D’Arcais, con l’individuazione di un “soggetto politico non effimero, capace del riformismo permanente necessario per l’eguaglianza …”, creato non “dal basso”, come metamorfosi di movimenti sociali, ma “dall’alto”, attraverso un atto di fondazione, senza un modello organizzativo preventivamente stabilito, dove la quasi permanete mobilitazione della società civile si saldi con “una fortissima leadership carismatica, capace di inclusione antisettaria”. Al di là della protesta, occorre un “ethos” inclusivo sul quale innestare la plausibilità dell’ipotesi di un “quasi comunismo” (alternativo al comunismo ed alla socialdemocrazia), cosi come prospettato dallo stesso Flores D’Arcais; cioè ad un disegno generale dell’organizzazione sociale.
Questo obiettivo potrà essere perseguito dal riformismo rivoluzionario, solo attraverso un’opposizione continua e inflessibile contro le forze dell’ipocrisia democratica, perché lo Stato cessi d’essere colonizzato da politici di mestiere e venga restituito ai cittadini.

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