L’industrializzazione “forzata” del Mezzogiorno: meglio uno sviluppo endogeno?

23 Settembre 2016
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Gianfranco Sabattini

Adriano Giannola, in un articolo pubblicato sul n. 4/2015 della “Rivista Giuridica del Mezzogiorno” (“L’estensione del settore delle imprese in mano pubblica; la sua funzione, storica e prospettica, per lo sviluppo”), torna a parlare del ruolo, a suo avviso centrale, che le imprese a partecipazione statale hanno svolto negli anni in cui il dualismo Nord/Sud dell’economia italiana è stato assunto come “problema prioritario” da risolvere.
A parere di Giannola, ciò che ha caratterizzato il processo di industrializzazione forzata è il fatto che esso non sia stato l’esito di un’operazione “pianificata”, ma di una razionale operazione programmata, “cosa ben diversa e compatibile, anzi essenziale per aprire nel sistema dualistico nostrano uno spazio crescente all’economia di mercato”. L’operazione programmata che ha sorretto il processo di industrializzazione forzata non è stata, tuttavia, universalmente condivisa, in quanto alcune parti, tra le quali la Svimez, l’hanno valutata pericolosa, considerando che il superamento del dualismo economico dell’economia nazionale avrebbe penalizzato strutturalmente le regioni meridionali.
In effetti, lo stesso Giannola riconosce la concretezza del pericolo paventato dai critici dell’industrializzazione forzata, ma ne attribuisce la causa, non al “consolidato luogo comune” che l’industrializzazione forzata si sia risolta solo nella costruzione delle cosiddette “cattedrali nel deserto”, ma agli effetti collaterali dell’attività iniziale della “Cassa”. La fase della pre-industrializzazione degli anni Cinquanta ha originato, come conseguenza della Riforma Agraria, un esodo degli occupati in agricoltura e un aumento dell’occupazione nelle piccole e medie attività manifatturiere, che la comparsa delle “Cattedrali” negli anni successivi avrebbe concorso a distruggere.
Questo fenomeno, a parere di Giannola, deve essere imputato al fatto che la fase iniziale dei lavori pubblici e della Riforma Agraria, mentre ha concorso a sostenere con continuità il reddito meridionale, ha anche contribuito a sviluppare un mercato locale che ha consentito di stimolare una produzione di beni tesa a soddisfare una domanda in espansione; è stato perciò inevitabile che la concorrenza delle grandi, piccole e medie imprese centro-settentrionali, ben più strutturate di quelle meridionali, trovassero un ulteriore mercato di sbocco per le loro produzioni.
Quindi, conclude Giannola, la tesi che, in luogo dell’industrializzazione forzata del Mezzogiorno, sarebbe stato più conveniente uno sviluppo endogeno fondato su una lenta espansione di piccole e medie attività di trasformazione locali, in un contesto dualistico, era inesorabilmente destinato a consentire al Centro-Nord già sviluppato di consolidare “una forma di dipendenza del Sud, proprio ostacolando le possibilità di uno sviluppo endogeno”.
L’industrializzazione forzata doveva consentire di evitare questo pericolo, che si è concretizzato nella seconda metà degli anni Settanta, allorché si è imposta l’idea di promuovere la crescita del Mezzogiorno attraverso uno sviluppo endogeno autopropulsivo. Quindi, il pericolo scampato negli anni Sessanta si sarebbe invece puntualmente presentato successivamente, quando il “localismo autopropulsivo” avrebbe condotto “alla dipendenza patologica del Sud e alle ben note conseguenze disgregatrici del sistema, tuttora operanti e per nulla contrastate”.
L’insuccesso del processo di industrializzazione forzata del Mezzogiorno può essere espresso anche in modo più esplicito: le strutture produttive impiegate dal sistema delle imprese a partecipazione statale sono state di solito sovradimensionate, sia perché la loro produzione (costituita da prodotti di base) non è stata totalmente “assorbita” dai comparti produttivi nazionali, sia perché esse non hanno avuto alcuna connessione con le attività produttive preesistenti, o ancora perché non è stata “programmata” la contemporanea localizzazione nelle regioni del Sud, a valle della attività produttive ad alto rapporto capitale/lavoro, di altre attività che avrebbero dovuto utilizzare, come fattori intermedi di produzione, una parte dei prodotti base allestiti. E’ questo il motivo per cui le grandi imprese a partecipazione statale, che hanno costituito il fulcro del processo di industrializzazione forzata del Sud, si sono lentamente trasformate nel simbolo del sostanziale fallimento del processo, ovvero in “cattedrali nel deserto”.
Per tutti i motivi esposti, non solo l’attività della “Cassa” degli anni Cinquanta, ma anche l’attività d’investimento forzato, attuata dall’inizio degli anni Sessanta sino alla fine della prima metà degli anni Settanta, ha concorso a migliorare solo il reddito disponibile delle regioni del Sud, ma non anche quello prodotto. Ciò a causa del fatto che, malgrado i notevoli investimenti effettuati al loro interno, non è stata migliorata la produttività della loro base produttiva; in altre parole, perché non è stata migliorata la loro capacità di produrre nuova ricchezza, idonea a consentire l’attivazione di un processo autopropulsivo di crescita e sviluppo, affrancato dal continuo flusso di trasferimenti di natura pubblica.
Anche dopo l’interruzione del processo di industrializzazione forzata, il persistente flusso dei trasferimenti pubblici, giustificato dalla necessità, di natura prevalentemente politica, di “tenere in vita” attività incapaci di conservarsi autonomamente sul marcato, ha causato nelle regioni meridionali la formazione di istituzioni politiche “estrattive”, non di istituzioni “inclusive” (secondo la terminologia introdotta nell’analisi dell’arretratezza economica da Daron Acemoglu e James Robinson in “Perché le nazioni falliscono”). Le prime hanno consentito che “ristretti gruppi locali” catturassero le opportunità offerte dai continui trasferimento o, peggio ancora, che gran parte dei trasferimenti fosse utilizzata per finalità extraeconomiche. Il prevalere di questo tipo di istituzioni ha impedito la formazione di istituzioni ad esse alternative, cioè quelle inclusive, sorrette da società civili orientate a legittimare le decisioni politiche solo se giustificabili sul piano strettamente economico e su quello dell’equità distributiva.
In chiusura della sua analisi, Giannola si chiede se oggi il “vecchio disegno” che ha preso il via alla fine degli anni Cinquanta possa essere “occasione di una riflessione quanto mai opportuna” sul rilancio di una politica diretta a promuovere la crescita e lo sviluppo dell’area meridionale del Paese. Egli è del parere che ciò sia possibile, ma solo attraverso un “responsabile intervento pubblico”, fondato, non su una riproposizione dell’esperienza del passato, ma su un nuovo progetto che sia l’esito di una “complessa operazione ‘maieutica’”; in altre parole, di un’operazione che consenta di esprimere i contenuti del nuovo progetto attraverso un complesso e generalizzato dialogo tra tutte le parti sociali interessate (incluse, si spera, le società civili delle regioni meridionali, in origine trascurate e fatte oggetto degli effetti connessi all’attuazione di una politica di intervento dai contenuti esogenamente determinati).

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