Scalfari, Zagrebelsky e il referendum

17 Ottobre 2016
Nessun commento


Tonino Dessì

 

A me la discussione su democrazia e oligarchia in corso tra Zagrebelski e Scalfari non convince molto. Troppa semplificazione da entrambe le parti.
È vero che in Zagrebelski, almeno, sembra avvertirsi l’influenza di Norberto Bobbio, quando il professore sostiene che non è, in entrambe le forme di governo, l’ampiezza dei componenti dell’élite prevalente, a caratterizzare l’una o l’altra, ma la tendenza dell’oligarchia, al contrario della democrazia, a preservare i privilegi sociali e politici dei più ricchi e potenti.
Tuttavia Bobbio utilizzava queste categorie, più che per distinguere oligarchia e democrazia, per distinguere destra e sinistra sulla base della propensione della seconda verso l’uguaglianza.
Ho pensato e scritto altre volte che neppure questa demarcazione è sufficiente, perché sull’eguaglianza, anche sociale, come finalità politica e istituzionale non strettamente connessa alle libertà fondamentali, si sono fondate persino oligarchie partitiche oppressive, com’è stato conclusivamente nei regimi a “socialismo reale”.
Il tema è antico ed è stato affrontato dall’800 in poi anche dal marxismo.
Marx non elaborò una teoria dello Stato, ma una teoria per capovolgere lo Stato borghese, che, anche nelle sue forme liberali e fondate sulla rappresentanza parlamentare, era radicalmente oligarchico. Nella sua convinzione progressista, che oggi possiamo considerare ingenuamente deterministica, il capitalismo avrebbe, come forza economica superiore scaturita dalla modernità industriale, prodotto il proprio antagonista radicale, il proletariato degli sfruttati, destinato a diventare sempre più numeroso. Da qui l’obiettivo fondamentale assegnato dal “Manifesto del partito comunista” di Marx ed Engels alla classe rivoluzionaria: ottenere il suffragio elettorale universale, conquistando nei parlamenti la maggioranza corrispondente a quella della superiore consistenza demografica. E siccome lo Stato “borghese” si configurava come dittatura dei pochi, la democrazia “proletaria” sarebbe stata la dittatura dei molti, ossia della maggioranza.
Marx era tuttavia un democratico radicale, poco propenso a teorizzare forme permanentemente vincolanti del dispiegamento delle forze economico-sociali e perfino della libera esistenza individuale.
Sul piano sostanziale quel che propugnava come precondizione della liberazione collettiva e individuale era la soppressione della proprietà privata dei mezzi di produzione. Come orizzonte politico era convinto che il passo successivo alla conquista del potere da parte del proletariato, liberatorio dall’alienazione globale, di cui trattò soprattutto ne “Il Capitale”, dovesse essere l’estinzione non solo dello Stato borghese, ma dello stesso concetto di Stato come forma di organizzazione sociale.
Oggi, per inciso, quelli che sembrano più convinti di tale ultima conclusione sono paradossalmente gli iperliberisti, profondamente avversi ai vincoli posti alle forze del mercato dall’esistenza stessa dello Stato e della sua legalità come si sono conformati nel secolo scorso.
Lo stato “democratico” che conosciamo, infatti, si è sviluppato durante la prima metà del secolo scorso come stato democratico-sociale anche per la spinta delle correnti marxiste e socialiste occidentali.
I marxisti fecero fronte all’aporia marxiana fin da dopo la scomparsa di Marx.
Engels restò un leader della socialdemocrazia tedesca (non inganni troppo il nome: erano socialcomunisti, in larga misura) e il suffragio universale, per l’instaurazione della dittatura della maggioranza attraverso lo Stato parlamentare, restava uno degli obiettivi rivoluzionari.
Lenin, invece, che si rese conto dell’impraticabilità di questa strada nella sconfinata Russia feudale e contadina, in “Stato e Rivoluzione” elaborò una teoria vera e propria dello Stato come “dittatura del proletariato” (operaio, in alleanza con altre classi sociali) e di una élite: il partito come avanguardia e guida del proletariato. Ma era concettualmente pur sempre la strategia per una transizione socialista che avrebbe visto alla fine realizzarsi il comunismo, ossia una condizione in cui lo Stato non c’è, sostituito dall’autoorganizzazione libera delle forze sociali.
Un orizzonte abbastanza indefinito cui pose termine semplicisticamente Stalin, con l’edificazione dello “Stato socialista dei lavoratori” in un Paese solo, ossia del comunismo realizzato in URSS, una forma di organizzazione statuale più dittatoriale che oligarchica.
Forse Gramsci avrebbe potuto sviluppare un’elaborazione diversa per l’Europa, più consapevole di altri com’era della straordinaria stratificazione e complessità di società fatte di trincee e di casematte e contrassegnate da guerre di posizione e di movimento, che lo portarono all’intuizione del concetto di “egemonia”.
Una classe può imporre il suo progetto di trasformazione a una società soltanto se riesce a esprimere una cultura egemone, ossia dei valori e degli obiettivi condivisi da portatori di interessi materiali diversi. Il partito come “novello principe” sarebbe stata l’élite della classe, nei confronti della quale avrebbe esercitato la direzione in forma educativa, persino pedagogica, ma per fare questo sarebbe stato necessario reclutare e formare una élite ampia, diffusa e capace di esercitare la leadership in tutti i gangli e le formazioni della società.
Gramsci era consapevole che in mancanza di questo il suffragio universale può portare a maggioranze moderate, quando non reazionarie e che addirittura lo strumento elettorale può aprire le porte a quelle forme di vera e propria dittatura moderna, fondata sul consenso rivoluzionario (passivo) di massa, che al suo tempo furono inaugurate dal fascismo e più tardi dal nazismo.
Oltre, Gramsci non potè andare. Ma la cultura e la pratica dell’egemonia furono assorbite, contrariamente alle speranze di Gramsci, dall’avversario di classe.
In Occidente comunque le cose sono andate diversamente che in URSS.
Negli USA un fatto storico spesso ricordato, per la sua attinenza all’attualità contemporanea, è che con Rooswelt un profondo ricambio antioligarchico e antimonopolistico si rese necessario proprio per superare il disastro economico e sociale prodotto dalle speculazioni finanziarie. Fu un processo democratico caratterizzato dall’espansione del potere federale, dal coinvolgimento dei sindacati, da una legislazione antidiscriminatoria e di promozione dei diritti che ha lasciato il segno fino a tutta l’era reaganiana, a partire dalla quale si è messa in atto una corposa controtendenza.
In Europa i socialisti, i socialdemocratici, i comunisti, ma anche le correnti politiche liberali, moderate e quelle di ispirazione cristiana si sono in vario modo ingegnati a perfezionare i sistemi democratici di tipo rappresentativo e parlamentare, sforzandosi, nel secondo dopoguerra, di impedire ogni debolezza degli impianti costituzionali che riaprisse la strada alle dittature e alle guerre. Per questo hanno dato vita a forme di organizzazione dello Stato articolate, dove il potere, derivante unicamente dalla sovranità popolare, fosse dislocato nella forma più diffusa e meno concentrata possibile, non limitandosi a impostare la democrazia istituzionale in termini classici di “pesi e contrappesi”, ma proprio tendendo a radicare nel corpo vivo delle rispettive società lo svolgimento parte significativa delle pubbliche funzioni.
Tutte le Costituzioni vigenti nell’Europa continentale occidentale postbellica (di quelle dell’est postsovietico ammetto di sapere poco), non solo la nostra Costituzione del 1948, hanno questa impronta, quale che sia la forma -semipresidenziale, di cancellierato o di tipo classicamente “ministeriale” a premierato politico- data ai poteri esecutivi.
Discutere di democrazia e di élites senza tener conto di questa storia non ha alcun senso.
L’impostazione di Scalfari è indietro a tutto questo rispetto alla stessa storia italiana. Che non si potesse gestire un Paese moderno in chiave oligarchica lo sostenne e lo praticò persino il liberale Giovanni Giolitti, per tutti i primi 15 anni del ‘900 al governo dell’Italia monarchica. La reazione fu il fascismo, assecondato da una forma costituzionale debole proprio sotto il profilo delle garanzie democratiche come lo Statuto Albertino del 1848.
Scalfari oggi rivendica il primato dell’oligarchia anche all’interno della forma di governo democratica, ignorando che la storia della democrazia contemporanea ha tutt’altro finalismo: quello di associare all’esercizio del potere non élites ristrette, ancorchè illuminate, ma aree sociali sempre più numerose, al fine di promuovere un corpo governante ampio e plurale.
Al di là delle formule istituzionali e partitiche sulle quali andiamo discutendo malamente anche in questa tornata politica, che ha in palio Costituzione e legge elettorale, a cosa crede Scalfari che siano sempre state finalizzate, oltre che a considerazioni sociali o latamente umanitarie, le garanzie costituzionali di diritti come quello all’istruzione, al lavoro, persino alla salute e a quale altro fine, per impulso della Costituzione vigente, pensa che questi diritti siano stati perseguiti finora attraverso servizi universali?
E a cos’altro, a parte una più articolata efficienza dell’intervento pubblico rispetto alla pesantezza centralistica, sarebbero state finalizzate, se non ad una estensione e dislocazione dell’esercizio del potere le più ampie possibili, le istituzioni rappresentative territoriali?
E’ vero che contro queste spinte delle democrazie oggi congiurano i cambiamenti profondamente distruttivi dell’ipercapitalismo. In Italia vi si aggiungono anche le mai sopite sopravvivenze antidemocratiche e fascistoidi che il Paese ha visto riemergere col ventennio berlusconiano.
Ma è ancora più vero che è la subalternità di governi nazionali, dei quali quello di Renzi e del PD sono appena la più recente edizione, ad assecondare queste pulsioni strutturalmente antidemocratiche della contemporaneità occidentale e capitalistica.
Alla fin fine a me pare che tutta l’insistenza di Scalfari su questi temi, più che a motivi generalmente filosofico-culturali, sia legata alla paura che l’esito del referendum sulle riforme costituzionali (sulle quali peraltro lui stesso, perdurando la connessione con l’Italicum, ha finora preannunziato il suo NO), qualora sfavorevole alle stesse, travolga più che questa sua impostazione, anzitutto la fragile costruzione del PD.
Certo, un risultato referendario negativo per la proposta di riforma metterebbe a nudo le questioni profonde che effettivamente attengono alla tenuta democratica sostanziale del Paese e che permangono ed anzi si aggravano, in una condizione nella quale proprio il restringimento della base democratica della politica ha impoverito l’Italia, privandola di una classe dirigente degna di questo nome.
Il fatto è che al contrario, se la riforma fosse approvata, ci troveremmo con una maggiore concentrazione del potere e con un sistema rappresentativo più oligarchico, per di più ulteriormente limitato nella sua legittimazione democratica, in quanto prodotto da meccanismi elettorali che consegnerebbero il governo a ristrette minoranze politico-partitiche.
E c’è da dubitare fondatamente che le istituzioni, la società, il Paese nel suo complesso si ritroverebbero più solidi, mentre invece è assai più verosimile che si troverebbero più indeboliti rispetto a fenomeni economici globali tendenti a ridurre sovranità, democraticità, garanzie dei diritti politici e sociali.

0 commenti

  • Non ci sono ancora commenti. Lascia il tuo commento riempendo il form sottostante.

Lascia un commento