Premio di maggioranza ed elezione diretta del Presidente: l’insostenibilità del modello sardo

2 Marzo 2017
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Omar Chessa

Facendo seguito ai recenti contributi di T. Dessì, F. Codonesu e A. Pubusa, pubblichiamo uno stralcio di un interessante saggio di Omar Chessa, costituzionalista sassarese.

[…] Già dal 2004 la Corte costituzionale ha chiarito che l’investitura popolare diretta del capo dell’esecutivo regionale comporta il meccanismo del simul stabunt simul cadent nei rapporti coll’assemblea elettiva: se il Consiglio sfiducia il Presidente eletto direttamente, questo deve dimettersi e si va a elezioni anticipate obbligatorie; lo stesso, se è il Presidente a dimettersi motu proprio o se muore oppure se è colpito da impedimento permanente. È evidente perciò che senza il premio di maggioranza, che assicura, per dirlo con le parole della Corte, una  «presunzione di consonanza politica» tra esecutivo e legislativo, la forma di governo regionale sarebbe insostenibile: anche per l’elezione diretta del Presidente e il premio di maggioranza si potrebbe dire aut simul stabunt aut simul cadent. “O stanno assieme o cadono assieme”.
Il vero problema, allora, è se non sia venuto il momento di fare un bilancio approfondito della forma di governo vigente. Ricordo che questa può essere riformata dal Consiglio regionale mediante legge statutaria (eventualmente seguita da referendum confermativo). Nel 2007, durante la presidenza Soru, venne approvata una legge statutaria che confermava il modello dell’elezione presidenziale diretta (previsto in via transitoria dalla legge costituzionale n. 2 del 2001), ma non fu confermata dalla consultazione referendaria, poiché non si raggiunse il quorum stabilito dalla legge. Sicché, a tutt’oggi, si applica il regime transitorio previsto dal legislatore nazionale.
È arrivato il momento, dunque, che pure in Sardegna, come già è accaduto nelle altre regioni da qualche anno, si prenda una decisione consapevole su quale debba essere il nostro modello istituzionale: se abbiamo la possibilità di scegliere la forma di governo, eventualmente adattando il modello vigente alle nostre esigenze, perché mai non dovremmo esercitare questa autonomia anziché continuare ad applicare le regole che altri hanno stabilito per noi? Come si spiega quest’inerzia della politica regionale?

1. Temo che la risposta sia da ricercarsi proprio nella forma di governo vigente, che assicura, sì, una grande stabilità dell’esecutivo, ma al prezzo di un insostenibile immobilismo.
Credo infatti che la stabilità del governo regionale, quale è assicurata dall’elezione diretta e dal complesso meccanismo del simul stabunt simul cadent, non sia un valore in sé, ma che acquisti senso e funzione quale presupposto di un’azione di governo coesa ed efficace: se questa manca, la stabilità diventa un dis-valore, perché ingessa il quadro politico e limita fortemente la naturale dinamicità dei sistemi democratici.
Dopo aver osservato per anni il rendimento effettivo del modello regionale, mi sono convinto che esso induca negli attori politici una modalità di comportamento e di rapporti non dissimile da quella che è tipica del governo presidenziale statunitense, dove la regolare, fisiologica assenza di un indirizzo politico veramente condiviso tra esecutivo e legislativo condanna la vita politica a una sostanziale inerzia, frustrando qualsiasi ipotesi di riforme e legislazioni veramente innovative. D’altronde, il modello presidenziale americano fu appositamente congegnato dai Framers proprio allo scopo di “complicare” l’azione di governo, assoggettandola a un regime paralizzante di checks and balances, di freni e contrappesi che riducessero grandemente la capacità del federal government di incidere nel tessuto sociale della nazione. Come scriveva Madison, il disegno costituzionale liberale deve contrapporre l’interesse all’interesse, l’ambizione all’ambizione, in modo che stenti ad affermarsi un indirizzo politico unitario tra le varie branches of government e rimanga sostanzialmente imperturbato l’ordinamento sociale borghese.
Ecco, il governo presidenziale delle regioni italiane obbedisce alla medesima logica istituzionale. È vero che negli USA la stabilità è data dal fatto che gli organi federali di governo hanno una durata fissa e che non c’è la possibilità dello scioglimento anticipato del Congresso. Al contrario, i nostri organi regionali di governo non hanno una durata fissa, perché è possibile lo scioglimento del Consiglio e le dimissioni del Presidente (motu proprio o per effetto di sfiducia). Tuttavia, poiché le dimissioni/sfiducia del presidente e lo scioglimento del consiglio devono essere contestuali, l’effetto è che si annullano vicendevolmente, producendo un funzionamento fisiologico del sistema assai simile a quello statunitense: i consiglieri, anche se non condividono più la linea presidenziale, non sfiduciano l’esecutivo per non andare a elezioni anticipate; e da par suo, il Presidente sa bene che punendo la sua maggioranza con le dimissioni e il conseguente scioglimento anticipato, rischierebbe di non essere ricandidato e di compromettere definitivamente la propria carriera politica.
È insomma la stabilità del “tirare a campare”, che paga il prezzo dell’inazione generata dalla sostanziale mancanza di sintonia politica tra esecutivo e legislativo. Peraltro è una stabilità che è sempre appesa al filo sottile delle vicende che riguardano il Presidente: le sue dimissioni, infatti, possono essere determinate da eventi vari, anche imprevedibili (un colpo di testa, una malattia grave, la morte, la stanchezza di chi vorrebbe cambiare vita o ritornare alla vita precedente la carica, una fuga d’amore, ecc.). Ma è accettabile che la durata della legislatura e quindi la tenuta del quadro politico complessivo possa dipendere dagli eventi personalissimi di un singolo individuo?

2. Nel rivedere la forma di governo regionale occorre però considerare l’art. 15 del nostro Statuto speciale: questo attribuisce alla legge statutaria il compito di determinare «la forma di governo della Regione e, specificatamente, le modalità di elezione, sulla base dei princìpi di rappresentatività e di stabilità».
Come si vede, quali che dovessero essere le valutazioni del Consiglio, in ogni caso la forma di governo dovrà assicurare, ad un tempo, “rappresentatività” e “stabilità”. Quanto al primo obiettivo, sarà  automaticamente conseguito per il solo fatto di rimuovere il premio di maggioranza (che è difatti il principale fattore distorsivo della rappresentanza politica, visto che genera una grande sproporzione tra voto popolare e assegnazione dei seggi consiliari, tanto più se è congegnato in modo da consentire alla minoranza elettorale più debole di diventare maggioranza consiliare assoluta). Quanto al secondo obiettivo, i modelli parlamentari conosciuti sperimentano da tempo un ampio ventaglio di soluzioni in grado di stabilizzare i rapporti tra assemblea elettiva ed esecutivo: dal meccanismo della sfiducia costruttiva ad altri istituti di “razionalizzazione parlamentare”, fino a formule elettorali effettivamente in grado di indurre processi di aggregazione partitica nella direzione di un multipartitismo temperato.
È evidente però che una discussione pubblica approfondita su queste diverse soluzioni non potrà mai aprirsi se prima non ci liberiamo dell’ipoteca costituita dal modello dell’elezione presidenziale diretta.

 

1 commento

  • 1 Oggi venerdì 3 marzo 2017 | Aladin Pensiero
    3 Marzo 2017 - 08:44

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