Industralizzazione sarda: l’occasione mancata

10 Maggio 2017
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Gianfranco Sabattini

 

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Il libro “L’occasione mancata. Lo sviluppo incompiuto dell’industrializzazione sarda” (recante un’introduzione di Gianluca Scroccu, che ne ha curato l’edizione e, in coda, una testimonianza di Andrea Raggio) è di Giulio Sapelli, noto storico economico; il volume ripropone due suoi saggi sul sistema economico degli anni della rinascita che, a giudizio del curatore, costituiscono due “contributi importanti”, perché permetterebbero “di inquadrare la storia economica sarda” in modo tale da consentire di individuare i limiti della politica di crescita e di sviluppo sperimentata.

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Di Sapelli si conoscono anche le valutazioni critiche che egli ha formulato sulla politica di sviluppo attuata in Sardegna, raccolte, alla fine del secolo scorso, in una memoria scritta per l’Associazione Industriale di Cagliari; nel volume curato da Scroccu, quelle valutazioni sono state arricchite con un “saggio” sulle opzioni che si offrono alla Sardegna per la promozione del suo futuro sviluppo; opzioni che sono alternative a quelle sinora sperimentate.
Entrando nel merito del volume di Sapelli, pare opportuno premettere subito una precisazione metodologica, al fine di render più intelligibili alcuni rilievi che possono essere formulati sulla sua analisi circa l’esperienza in fatto di politica di sviluppo della Sardegna; ma anche, e soprattutto, al fine di valutare le sue considerazioni concernenti la reale attuabilità delle alternative possibili per il rilancio della crescita e dello sviluppo dell’Isola.
La precisazione si rende necessaria, per via del fatto che in tutto il suo discorso Sapelli parla spesso di crescita endogena, senza precisare se per la formulazione delle politiche pubbliche da attuare in Sardegna egli intende suggerire l’esigenza che si tenga conto delle implicazioni della “teoria della crescita endogena”; oppure che tali politiche debbano essere formulate in funzione della loro capacità di promuovere un processo di accumulazione endogena dell’intera area regionale, fondato sulla valorizzazione delle sue risorse interne, piuttosto che su risorse trasmesse, come in realtà è avvenuto, dall’esterno.
La distinzione è importante, considerato che la teoria della crescita endogena presenta non pochi limiti riguardo alla sua utilizzazione per la formulazione di politiche pubbliche finalizzate a supportare la crescita e lo sviluppo di aree regionali arretrate, come quelle delle regioni dell’intero Mezzogiorno, in generale, e della Sardegna, in particolare.
E’ noto come nella teoria della crescita endogena la formazione del capitale umano, in cui si ipotizza siano incorporati gran parte degli effetti della formazione della forza lavoro e degli esiti della “R&S” si trovino in un rapporto biunivoco con l’”ambiente sociale”. Se nella formulazione delle politiche pubbliche di ciò non si tiene conto, la conseguenza è che i cosiddetti “costi di transazione”, cioè i costi causati dalle possibili resistenze sociali all’utilizzazione di quegli effetti e di quegli esiti siano del tutto ignorati.
Ciò rende inappropriata l’utilizzazione delle politiche di sviluppo formulate sulla base delle sole assunzioni della teoria della crescita endogena, in quanto, non solo mancano di considerare le reazioni sul piano psicologico, sociologico e politico derivanti dai cambiamenti sociali originati dalla formazione del capitale umano e dagli esiti della “R&S”, ma anche risultare inopportune sul piano sociale per la loro funzione ideologica di sostegno della crescita e dello sviluppo al servizio del solo capitale privato.
Sapelli, giustamente, considera gli effetti dell’”education”, cioè della formazione del capitale umano, come un “bene pubblico parziale; così come sono, peraltro, beni pubblici parziali anche gli effetti della “R&S”. Solo la considerazione dell’”intreccio”, cioè della considerazione congiunta di tutti questi effetti – afferma Sapelli – può dare fondamento ad una politica pubblica orientata a promuovere la crescita e lo sviluppo di un’area arretrata; l’effettuazione di questo intreccio nella formulazione delle politiche pubbliche regionali non è mai stato oggetto di considerazione da parte dei decisori pubblici.
Quanto sin qui detto non vuole certo sminuire il valore dei risultati cui sono pervenuti gli studi sulla teoria della crescita endogena, la cui mancata utilizzazione sembra essere indicata da Sapelli come la causa prima del incompiuto processo di crescita e sviluppo occorso in Sardegna a partire dagli anni successivi alla fine del secondo conflitto mondiale; tuttavia, non si può tacere, prescindendo dai limiti delle élite (politiche e non) che ne hanno gestito l’attuazione, la sproporzione esistente tra la “potenza” dei modelli econometrici elaborati dalla teoria della crescita endogena e la concreta impossibilità di incidere sulle variabili non solo economiche, ma anche psicologiche, sociologiche e politiche di una regione arretrata.
A questa sproporzione si deve ricondurre l’improponibilità per la rimozione della permanenza dell’arretratezza di molte regioni del Paese, tra le quali la Sardegna, osservando che la prospettiva per il futuro di queste regioni indicata da Sapelli, per quanto puntuale essa sia, non possa fornire sul piano operativo alternative infallibili, tali da poter essere utilizzate per la costruzione di un progetto di politica economica destinato a sicuro successo.
Più realistica appare perciò la prospettiva dello sviluppo endogeno “tout court”, fondato sulla valorizzazione delle risorse presenti nei territori dell’Isola; ma “come”, e attraverso “chi”, tale sviluppo può essere promosso? La riflessione di Sapelli sul processo incompiuto di crescita e sviluppo della Sardegna può essere utilizzata come “via di fuga” dai limiti dell’esperienza passata riguardo al “come”, ma non riguardo al “chi”.
Per costruire una realistica alternativa alle politiche pubbliche del passato occorrerebbe ora cercare – come afferma Sapelli – di “costruire una tensione intellettuale virtuosa”, in grado di assicurare alla Sardegna la possibilità di attivare un processo di accumulazione fondato principalmente sulla valorizzazione delle proprie risorse; a tal fine, però, la “tensione virtuosa” dovrebbe essere principalmente fondata sul convincimento che le conseguenze negative sperimentate in Sardegna sono state originate dalle scelte effettuate a livello nazionale negli anni Cinquanta, circa le modalità di elaborazione delle politiche finalizzate allo sviluppo delle regioni arretrate del Paese.
Ciò ha determinato che le élite politiche locali regionali non abbiano saputo o non abbiano potuto porsi come polo sociale, politico ed economico di riferimento per l’intero contesto regionale; quindi, non siano state portatrici di istanze autonome rispetto alla controparte; infine, non abbiano saputo o non abbiano potuto realizzare aggregazioni sociali e politiche stabili, i cui obiettivi potessero essere alternativi a quelli “dettati” dalle ideologie dei partiti e dagli “interessi” nazionali totalizzanti.
Ciò ha comportato che a livello nazionale e regionale si affermasse non solo il primato della politica nella promozione di un processo di crescita e di sviluppo delle aree arretrate, ma che fosse deciso a livello nazionale quanto dal punto di vista economico era più conveniente per le singole regioni. Per la Sardegna, ciò ha significato disattendere le decisioni assunte a conclusione del Congresso del popolo sardo svoltosi nel 1950. In quell’occasione era stato deciso che la forma da assegnare alla rinascita economica dell’Isola fosse fondata sulla prevalente valorizzazione delle sue risorse primarie.
Come ricorda Raggio nella sua “Testimonianza, nel giro di otto anni, la “Commissione di studio”, insediata per l’elaborazione del piano di rinascita, ha stravolto le determinazioni del Congresso del popolo sardo, fondando la crescita e lo sviluppo delle regioni arretrate del Paese sull’insediamento in esse di grandi imprese industriali appartenenti a settori di attività “mature”, un eufemismo per dire che si trattava per lo più di attività sulla via del loro “tramonto” economico. La decisione era il risultato di uno “scambio politico” che seguiva la stipula nel 1957 dei Trattati comunitari, implicanti, tra le altre cose, la “cessione” all’Italia di quei settori di attività maturi da utilizzare per l’”industrializzazione” delle regioni arretrate, in cambio, a vantaggio di altri Paesi europei (principalmente Francia e Germania), delle poche attività primarie di prestigio delle quali le regioni arretrate del Paese, tra le quali la Sardegna, disponevano.
Le conseguenze del primato della politica sui processi decisionali della società civile è ormai nella consapevolezza di tutti; basterà ricordare, solo per non dimenticare, che esse si sono materializzate in una struttura economica squilibrata, caratterizzata da equilibri socio-economici a bassa intensità dinamica; quindi, in una struttura sociale poco orientata alla valorizzazione del “saper fare” regionale e prevalentemente orientata a migliorare il reddito disponibile; infine, nella formazione di una società politica mai propensa ad elaborare unitariamente un’ipotesi di crescita e sviluppo utile a migliorare il reddito prodotto. Il risultato è consistito nel ridurre la presunta autonomia speciale della Sardegna in un’”autonomia querula”, al servizio di élite politiche sempre propense a “postulare” aiuti esterni a favore dell’Isola, in funzione dei loro interessi elettorali.
Per rimediare a tutti gli squilibri, gia prima che “scoppiasse” la crisi della Grande Recessione iniziata nel 2007/2008, si sarebbe dovuta imporre “ai protagonisti dei poteri della società sarda”, una scelta diversa; ovvero una scelta che implicasse l’assunzione della crescita e dello sviluppo dei singoli territori dell’Isola come leva per ottenere analoghi risultati nell’intero suo contesto, il cui territorio sarebbe dovuto essere inteso come insieme di spazi occupati da specifiche comunità, caratterizzati dall’intreccio di tutti i fattori (fisici, culturali, istituzionali ed economici) determinanti le loro potenzialità. In questo modo, sarebbe stato possibile individuare nella società civile di ogni singola circoscrizione territoriale il soggetto (il “chi”) in grado, con la propria azione, di “rompere” la staticità della arretratezza.
Al contrario, sia pure in ritardo e in presenza di una crisi che si stenta a superare, è avvenuto che, ancora una volta, le élite politiche delle quali parla Sapelli abbiano perso l’occasione di restituire il potere decisionale circa la valorizzazione delle risorse locali alle società civili dei territori della Sardegna. Con l’approvazione, all’inizio del 2016, della legge regionale sul riordino delle autonomie locali, quelle élite hanno proceduto alla suddivisione del territorio regionale in modo del tutto indipendente da ogni considerazione riguardo alla crescita e allo sviluppo delle singole aree; anziché rinvenire, nelle società civili locali, il soggetto in grado di rompere la staticità dell’arretratezza dei territori, è stata privilegiata la scelta di soddisfare principalmente i prevalenti interessi elettorali.
Ciò che in questa circostanza va sottolineato è il fatto che le decisioni sul riordino caotico e casuale delle istituzioni che dovranno promuovere la rimozione dell’arretratezza dei territori sono state prese col concorso di soggetti che, giunti alla responsabilità dell’attività di governo regionale, si sono dimenticati delle loro considerazioni critiche riguardo alle politiche pubbliche sperimentate; dimentichi del loro impegno critico riguardo all’esperienza vissuta, essi non hanno esitato a connotare la loro azione nel segno della più assoluta continuità rispetto al passato.

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