L’Italia e l’interesse nazionale smarrito

16 Agosto 2017
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 Gianfranco Sabattini

La Grande Recessione che ha colpito gran parte delle economie di mercato, e in particolare alcuni Paesi dell’Unione Europea, tra i quali l’Italia, ha portato con sé una crisi d’instabilità politica, non solo per l’incapacità dell’establishment tradizionale di fare fronte alle conseguenze più negative della crisi economica, ma anche per l’accentuarsi ed il diffondersi del convincimento che le modalità con cui si è cercato, e si continua a cercare, di uscire dalla crisi in modo stabile e duraturo stiano mettendo a rischio le istituzioni democratiche.

Ciò è tanto più grave per quei Paesi che, come l’Italia, non hanno precisa consapevolezza di quali siano il “proprio interesse nazionale” e il proprio ruolo a livello internazionale, e soprattutto europeo. Ciò è dovuto, non tanto alla sua recente costituzione come nazione, quanto alle particolari circostanze che ne hanno caratterizzato la vita politica nel secondo dopoguerra, spingendola ad affidarsi al mondo esterno per la soluzione dei propri problemi interni, di ricorrere cioè al cosiddetto “vincolo esterno”.

La conseguenza di tutto ciò è stata la maturazione di un’estrema posizione di debolezza contrattuale che l’Italia ha scontato, e continua a scontare, come, ad esempio, al “tavolo delle trattative europee” che di continuo si svolgono per adeguare il governo del mercato interno dell’Europa alle pressioni esercitate dalla globalizzazione (asse di governo franco-tedesco, Europa a due velocità, costituzione dell’”Euronucleo tedesco”, ecc.). Il n. 4/2017 di “Limes” è interamente dedicato all’approfondimento di questi problemi; le osservazioni svolte nell’”Editoriale”, congiuntamente alle argomentazioni formulate in alcuni degli articoli contenuti nel periodico, meritano d’essere considerate.

Nell’”Editoriale” si sostiene, non infondatamente, che la mancata consapevolezza di quale sia l’interesse in base al quale giustificare le scelte nazionali mette a rischio la soluzione dell’antico problema del dualismo Nord/Sud, concorrendo anche a creare motivi che porteranno il Paese a divergere dall’Europa. E’ vero che il “solco che accentua la separatezza originaria tra Settentrione e Mezzogiorno è scavato in parallelo da percezioni antropologico-culturali e dinamiche socio-economiche, nell’impotenza della politica - futile, afasica – e nella fragilità del contesto istituzionale, minato dalla corruzione sistemica, di cui si avvantaggiano mafie e altri poteri informali”, indebolendo l’”architettura geopolitica italiana”; non è meno vero, però, che con la crisi della Prima Repubblica e la fine della guerra fredda “è emersa al Nord la tentazione di codificare su base geoculturale, se non etnica, la propria alterità a Roma e al Sud”, con il fine di affermare la “rappresentazione di una diversità che nella sua versione estrema, tendeva a negare l’identità italiana”, quindi con conseguenze delegittimanti nei confronti dello Stato nazionale.

Il dualismo italiano Nord/Sud “non consiste più - com’è detto nell’”Editoriale” di Limes – solo nella diffidenza del Nord che si vuole civile e produttivo, vocazionalmente impolitico verso l’inefficiente classe amministrativa incistata nella capitale e l’ignaro Mezzogiorno”, ma nell’affermazione del convincimento dell’esistenza di “un’insuperabile diversità antropologica” del Nord rispetto al Sud, alla quale “corrisponde una latente quanto poco ricambiata affinità con il mondo germanico”. Sfortunatamente, questo convincimento è stato corroborato dagli effetti della crisi dell’ultimo decennio.

In tale priodo, il Prodotto Interno Lordo (PIL) del Sud dell’Italia è crollato di quasi il doppio rispetto a quello del Centro-Nord; il PIL medio meridionale è divenuto uguale a poco più della metà di quello dell’area centro-settentrionale, mentre la caduta dei consumi medi pro-capite è stata di due volte e mezzo superiore rispetto a quella registrata nel resto del Paese e quella dell’occupazione è stata addirittura maggiore di sei volte. Di fronte all’aggravamento del dualismo territoriale, vi è chi afferma che il divario sia ormai diventato incolmabile, e a riprova di questa affermazione si osserva che, se anche si dovesse ipotizzare una futura crescita annua del Sud superiore dell’0,4% rispetto a quella del Centro-Nord, per realizzare la tanto attesa convergenza tra le due aree “occorrerebbe attendere l’anno 2243”.

Inoltre, nella parte settentrionale dell’Italia, gran parte del sistema industriale è integrata nell’economia dell’area destinata, probabilmente, a costituirsi in “euronucleo tedesco”. Fatto questo che sembra essere confermato dalla consistenza dell’intersambio fra l’area settentrionale dell’Italia e la Germania; nel 2016, esso ha raggiunto il tetto degli 87 miliardi di euro, a fronte dei 15 miliardi dell’area centrale e dei 7 dell’area meridionale; si tratta tuttavia di un interscambio, quello tra il Nord dell’Italia e la Germania, che al di là delle apparenze nasconde un grave limite: senza una solida ripresa del Mezzogiorno, l’area centro-settentrionale dell’Italia è destinata a risultare penalizzata; ciò perché il mercato del Mezzogiorno varrebbe, per la parte più ricca del Paese “il triplo delle esportazioni verso tutti i Paesi dell’Unione Europea”.

A livello europeo, l’aggravarsi del dualismo tra la parte “ricca” e quella “povera” ha determinato l’ulteriore divergenza, sul piano economico, del nostro Paese rispetto al resto dell’Europa, che negli anni della Grande Recessione, è stata come riporta l’”Editoriale” di Limes, di 9 punti percentuali rispetto all’Eurozona e di 11 punti percentuali rispetto all’intera Unione Europea; si è consolidato in tal modo “il distacco fra la crescita italiana e quella delle principali economie continentali”, che ha sua matrice d’origine nella distruzione dell’economia mista, che aveva consentito all’Italia, non solo di ricostruirsi dopo la Seconda guerra mondiale, ma anche di inserirsi con successo nel mercato manifatturiero internazionale. Come afferma Giuseppe Berta nella sua “Conversazione” con Giuseppe Maronita, il cui testo è riportato nella rivista Limes col titolo “La grande industria è finita con l’IRI. Puntiamo sui medi per non scomparire”, una “retorica semplice e precisa” identificava l’Italia, dopo la Germania, come “seconda potenza manifatturiera” europea.

Il paragone con la Germania, a parere di Berta, non poteva reggere, in quanto, già prima della crisi, l’Italia non disponeva del “possente apparato produttivo tedesco, né la forza lavoro altrettanto evolutiva, tipica di un Paese a forte connotazione manifatturiera”: l’Italia era, e continua ad esserlo, un Paese di imprese medio-piccole, esprimente una realtà ed una forza economica imparagonabili a quele tedesche. La struttura dei settori manifatturieri italiani è, secondo Berta, la “chiave per capire la nostra formidabile esposizione alla crisi”; ma anche, si può dire, la “chiave” per capire le ragioni dell’allargamento della divergenza dell’Italia dal resto dei più importanti Paesi europei. A suo parere, un dato esprime, più di qualsiasi altro, la debolezza dell’apparato industriale manifatturiero italiano: quello stimato da Nomisma, dal quale risulta che “circa il 20% dell’industria italiana – meno di 2000 imprese in un Paese di quasi 60 milioni di abitanti – fa l’80% del valore manifatturiero”, mentre tutto il restante apparato produttivo industriale stenta a conservarsi sul mercato. Il resto dell’apparato industriale, infatti, è costituito da piccole imprese per lo più orientate al mercato interno; nel loro insieme, tali imprese hanno costituito la parte dell’intero apparato produttivo sulla quale si sono “scaricati” gli effetti più disastranti della crisi.

Si deve tenere presente che il dualismo tra medie e piccole imprese preesisteva alla crisi, ma si è fortemente accentuato in seguito; va anche considerato che il dualismo non è solo dimensionale, in quanto esso presenta pure una dimensione settoriale. I settori che più hanno retto gli esiti negativi della crisi sono quelli che andavano meglio anche prima: sono i settori produttivi pesanti, quali quelli della meccanica, della chimico-farmaceutica e della metallurgia; mentre più penalizzati sono stati i settori delle costruzioni e dell’abbigliamento.

Il limite del nostro apparato industriale – afferma Berta – non sta nella mancanza di professionalità e di capacità innovative, “quanto nell’incapacità di produrre realtà industriali grandi, capaci di replicare su vasta scala le intuizioni e le eccellenze locali”. Per questo motivo, sostiene Berta, la nostra maggior forza industriale deve essere rinvenuta in un “capitalismo intermedio”, espresso “da imprese di medio fatturato, capaci di mettere a sistema saperi, competenze e attività presenti nel territorio” che stimolano l’ammodernamento tecnologico e creano sbocchi sui mercati esteri.

Si tratta di una forma di capitalismo che influenza, aggravandolo, il dualismo tra l’aerea settentrionale e quella meridionale del Paese; ciò perché esso è, e resta, espressione delle regioni del Centro-Nord del Paese. Se dunque dopo il decennio di crisi, il dualismo territoriale dell’Italia si è accentuato, lo si deve al peggioramento della situazione del Mezzogiorno e non alla maggior tenuta sul piano economico dell’area settentrionale, la quale peraltro ha visto il deteriorarsi della propria situazione rispetto all’Europa.

Dopo tanti anni di attenzione riservata al cosiddetto capitalismo leggero della moda e del design, l’Italia deve prendere atto del fatto che non potrà mai esprimere un’economia incentrata sulla grande industria; ciò perché – afferma Berta – “è un Paese di recente e imperfetta industrializzazione, che ha fatto il suo miracolo tra la metà degli anni Cinquanta e la metà dei Sessanta in condizioni internazionali e politico-sociali forse irrepetibili, e che ci ha messo altri dieci anni, dalla metà degli anni Settanta, per demolire l’economia mista e sprofondare nei debiti”. Occorre, perciò, che si reagisca alla situazione evidenziatasi nella sua nuda realtà durante e dopo la crisi, tenendo presente che la forza oggi sta nella “sparuta pattuglia” di medie imprese, da incentivare e proteggere con uno sforzo congiunto del mondo imprenditoriale e di quello politico.

Il mondo imprenditoriale, a parere di Berta, deve riconsiderare il problema della propria rappresentanza; ciò al fine di “ricalibrare” l’azione a tutela della sua funzione sulla “dimensione di gran lunga dominante” del capitalismo italiano, rendendo più efficace l’operato delle proprie organizzazioni a livello nazionale ed internazionale. Il mondo politico deve anch’esso prender atto della nuova realtà economica che ha preso forma dopo i dieci anni di crisi e “chiudere la forbice”- come si afferma nell’”Editoriale” di Limes – fra “oggettivo rilievo e carenza di soggettività” che caratterizza il Paese; ciò al fine di costituirlo “in attore geopolitico”, non importa se grande o piccolo, per proteggere gli interessi nazionali “nella competizione e nel compromesso” con gli altri attori geopolitici, evitando così, come spesso è accaduto nei momenti più acuti della crisi, di “pretendersi Stato per farsi eterodirigere da altri Stati”.

Sinora, l’Italia è stata molto disattenta nel valutare il rischio cui potrebbe essere esposta se prendesse corpo ciò di cui spesso si discute; qualora cioè diventasse concreto lo scenario connesso alla possibile costituzione in Europa dell’euronucleo tedesco; evento questo che varrebbe ad evocare anche la possibilità che la fragile unità dell’Italia sia “spaccata” dall’adesione all’euronucleo della “macro-regione padana”, per via dell’ulteriore peggioramento del dualismo territoriale, che vedrebbe l’area del Mezzogiorno non più in grado di esercitare un attrazione economica conveniente nei confronti del capitalismo leggero delle regioni del Centro-Nord del Paese. La necessità di prevenire questi possibili eventi nefasti esprime il motivo per cui agli italiani serve un’Italia che sia attore geopolitico.

 

 

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