La vocazione imperiale Usa e le promesse di Trump

6 Settembre 2017
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Gianfranco Sabattini

Donald Trump ha vinto le elezioni promettendo ai “dimenticati d’America”, cioè a coloro che sono stati vittime della politica dei suoi più immediati predecessori, di riscattarli dalle condizioni economiche disagiate cui sono stati costretti; in particolare, dalle modalità con cui negli ultimi decenni sarebbe stata “governata” la globalizzazione.
Connotato essenziale di ogni struttura imperiale americana è, secondo Dario Fabbri, quello di far pesare il costo del suo mantenimento sulla popolazione della potenza centrale; in “La sensibilità imperiale degli Stati Uniti è il destino del mondo” (Limes, 2/2017), Fabbri afferma che la potenza imperiale è indotta naturalmente “a esprimere deficit commerciale e deficit pubblico per mantenere a sé legati i soggetti inseriti nella propria costellazione. Tra questi la Cina che, lungi dal possedere alcun potere di ricatto, intrattiene con gli Stati Uniti una classica relazione di subalternità”.
Per tener fede agli impegni elettorali, il neoeletto presidente americano, si prefigge di “alleviare il malessere interno”, scaricando il costo di una politica sociale finalizzata ad alleviare gli stati di bisogno esistenziali del proprio elettorato su alleati e competitori, imponendo il pagamento di un maggior prezzo per la loro partecipazione alla fruizione dei vantaggi assicurati dalla “pace imperiale” garantita degli USA, e introducendo un “blocco” all’immigrazione onde evitare che questa continui a sottrarre posti di lavoro a quei cittadini che maggiormente hanno risentito negativamente degli esiti del processo di globalizzaione dell’economia nazionale. A parere di Fabbri, questi obiettivi, se perseguiti con determinazione, “potrebbero rivelarsi inconsapevolmente anti-imperiali, dunque in grado di polverizzare la supremazia americana”.
Di qui le fatidiche domande: è possibile che una potenza imperiale, qual è allo stato attuale l’America, possa abdicare al proprio rango di leader mondiale per acquisire un maggior livello di benessere interno? Oppure, la nazione americana, per conservare la propria posizione egemone a livello globale, dovrà accettare il costo che questa comporta, “saziandosi del compiacimento infuso dall’affermazione globale?”. Per rispondere Fabbri espone, in termini realistici, i motivi dell’’improbabilità che la complessa architettura imperiale possa essere “distrutta”; le sue conclusioni, però, sono poco convincenti.
Dopo la dichiarazione dell’indipendenza nel 1776, la nazione americana, attraverso un “furioso dibattito” svoltosi all’interno dell’élite dei suoi padri fondatori, ha maturato l’idea che nell’avviare la propria proiezione esterna dovesse evitare ogni pretesa imperiale, pena, laddove si fosse verificato il contrario, la perdita del proprio spirito, come ha avuto modo di affermare John Quincy Adams. Dimentica delle idee dei propri “padri”, l’America – afferma Fabbri – “s’è tramutata in impero fin dal principio della sua storia. Inizialmente, a scapito delle popolazioni amerinde, dell’Inghilterra, della Francia, della Spagna e del Messico” e, successivamente, muovendo verso Ovest e scavalcando gli ostacoli del Pacifico, ha annesso a sé l’atollo di Midway, le isole Hawaii, le Filippine, l’isola di Guam e l’arcipelago di Samoa. Nella seconda metà dell’Ottocento, con l’espansione territoriale, l’America si è aperta all’accoglimento di consistenti flussi di immigrati, mentre la sua Marina è diventata competitiva a livello internazionale, “prodromo dell’affermazione sulle rotte marittime”.
E’ stato però dopo il secondo conflitto mondiale che l’America ha posto le “fondamenta strategiche per tradurre il proprio impero in supremazia globale”, estromettendo la Gran Bretagna dall’Oceano Atlantico, imponendo l’alleanza atlantica e, con il trattato di mutua assistenza stipulato nel 1952 con il Giappone sconfitto, assumendo il parziale controllo dell’Oceano Pacifico. L’America, tuttavia, ha potuto imporre definitivamente la propria egemonia globale con l’abbandono del mercantilismo, ovvero della prevalente propensione ad identificare in modo esclusivo l’interesse nazionale con la crescita costante del volume dei traffici commerciali, e la sua sostituzione con “una politica economica eminentemente strategica”, che ha potuto consolidare sulla base di due eventi strettamente connessi tra loro, occorsi a cavallo tra la fine del secondo conflitto mondiale e l’immediato dopoguerra: la conferenza di Bretton Woods del 1944 e l’approvazione del Piano Marshall nel 1947.
La Conferenza di Bretton Woods è spesso ricordata anche come l’evento nel corso del quale si sono confrontati due diversi modi di intendere le relazioni economico-monetarie internazionali del dopoguerra: il primo, basato su una moneta mondiale denominata “Bancor” e incentrato sul dollaro e la sterlina, è stato proposto da John Maynard Keynes; l’altro, che proponeva di istituire un sistema monetario internazionale incentrato sull’oro e sull’emissione di una moneta mondiale denominata ”Unitas”, è stato invece avanzato dall’economista americano Harry Dexter White. Le proposte dei due economisti, che contenevano entrambe elementi evolutivi e progressisti, sono state però disattese, a causa dei nuovi equilibri di potere che allora stavano nascendo a livello mondiale, col risultato della costituzione di un’area valutaria occidentale, caratterizzata dall’egemonia esclusiva del dollaro. In questo modo – afferma Fabbri – si è palesata la struttura dello “schema di dipendenza che Washington avrebbe elaborato nei confronti dei propri clientes”; schema, basato sulla considerazione del “deficit commerciale come arma in possesso della potenza dominante, connotato naturale dell’egemonia”.
Le decisioni della conferenza di Bretton Woods sono state così plasmate per l’attuazione di un piano d’intervento per il sostegno della ricostruzione dei Paesi dell’Europa occidentale (Piano Marshall), ufficialmente denominato “European Recovery Program”, la cui attuazione è valsa ad inserire le economie europee nel ricostruito mercato mondiale, rivelandosi una decisone “di straordinaria portata strategica in chiave antisovietica”; ma è servita anche a conservare la neonata Repubblica Federale Tedesca nel novero dei Paesi egemonizzati dagli USA. Identiche iniziative, sin dal 1945, sono state attuate nell’Oceano Pacifico nei confronti del Giappone sconfitto: dopo il primo sostegno economico, dalla fine del 1947, le priorità statunitensi si sono spostate dal cambiamento in senso liberale delle istituzioni politiche e culturali giapponesi verso una sostanziale ripresa dell’economia nipponica, per disporre di un baluardo contro l’espansionismo dell’Unione Sovietica in Asia, specie dopo la costituzione della Repubblica Popolare della Cina, nel 1949, e lo scoppio della guerra di Corea, nel 1950.
La conferenza di Bretton Woods e la ricostruzione dei Paesi ad economia di mercato sono state delle iniziative che hanno raggiunto il loro apice – sostiene Fabbri – alla fine della guerra fredda; con l’implosione dell’Unione sovietica nel 1991, gli USA sono diventati l’unica superpotenza globale, che ha esteso “all’intero globo il proprio potere militare, commerciale e culturale. Attuando i tratti distintivi della supremazia ancora in vigore. Dal controllo delle vie navali, all’assorbimento pressoché illimitato di merci straniere, fino all’assimilazione sul territorio nazionale di un numero crescente di immigrati”. Gli USA hanno potuto così ribattezzare il proprio impero col nome di globalizzazione.
In assenza di antagonisti, l’Amministrazione americana ha suddiviso il mondo in “aree di competenza e responsabilità”, al cui presidio ha destinato le sue potenti flotte militari, a tutela della sicurezza delle rotte marittime, strumentali alla stabilità dell’allargamento continuo dei traffici commerciali, resi possibili dalla globalizzazione, e alla sicurezza della necessaria area valutaria fondata sul dollaro. Il traffico marittimo statunitense – osserva Fabbri – è aumentato negli ultimi venticinque anni del 400% e, dal 1991, gli “Stati Uniti hanno volontariamente aumentato il proprio deficit commerciale misurato in merci, passato da 31 miliardi di dollari del 1991 a 750 miliardi del 2016”; la Cina, suo principale partner di interscambio, presenta un surplus commerciale verso gli USA che è passato dai 12 miliardi di dollari del 1991 ai 347 del 2016; molti altri Paesi (Giappone, Germania, Messico, in prima linea) hanno maturato un’identica posizione nei confronti dell’economia americana, sia pure notevolmente distanziata da quella cinese.
Dalla fine della guerra fredda, anche il debito pubblico statunitense è aumentato dagli originari 3.665 miliardi di dollari agli attuali 19.976 miliardi, posseduto, nella forma di Buoni del Tesoro, per il 32% da governi stranieri che, nell’ordine sono: Giappone (1.090 miliardi), Cina (1.058), Regno Unito (217), India (118,2), Germania (82,2), Russia (86,1), Corea del Sud (93,2), Messico (47,1) e cosi via. Il consistente ammontare del debito pubblico, anziché essere percepito – afferma Fabbri – “come segnale di vulnerabilità, come vorrebbe un’interpretazione anti-imperiale del sistema internazionale, il legame finanziario palesa l’inferiorità della periferia nei confronti del centro”. I Paesi della periferia sono infatti “costretti ad acquistare titoli di Stato USA per mantenere apprezzato il dollaro e reinvestire il surplus commerciale nel più stabile luogo della terra, […] per mantenere il benessere del loro principale acquirente, nonché garante delle vie di comunicazione”.
Il neoeletto presidente ha promesso ai “dimenticati” del suo Paese di porre un freno all’indebitamento e a tutto ciò che sinora con la globalizzazione ha cessato di conservare “grande l’America”; vuole infatti ricondurre sul territorio americano molte imprese che hanno scelto la via della delocalizzazione all’estero, scoraggiare le importazione attraverso l’introduzione di dazi doganali e porre un limite all’immigrazione. Ma così facendo, Trump indebolirebbe la posizione imperiale degli USA nel mondo. Secondo Fabbri, però, il neopresidente non potrà realizzare il suo “disegno elettorale, poiché “non dispone del potere necessario per fissare la strategia nazionale. La sua azione è limitata dalle prerogative del Congresso, dispensatore delle risorse finanziarie necessarie ad attuare la politica estera, e dal mestiere degli apparati federali, custodi dei propositi di lungo periodo”.
Nei prossimi anni, perciò, è plausibile prevedere che, qualora Trump voglia mantenere le promesse fatte al proprio elettorato, l’America potrà certamente inaugurare una nuova politica estera fondata su un aumento moderato dei dazi protettivi per scoraggiare moderatamente le importazioni, incentivare il rimpatrio di molte attività produttive che hanno dato origine alla “cintura della ruggine”, formata dagli Stati di più antica industrializzazione in crisi, e introdurre maggiori controlli sui flussi migratori provenienti soprattutto dai Paesi latino-americani; nonostante questa nuova politica, la superpotenza non potrà, in ogni caso, rinunciare al ruolo dinamico che la globalizzazione ha per la sua economia; sarà, perciò, gioco forza per la superpotenza imperiale continuare a presidiare le rotte marittime e l’indispensabile area valutaria fondata sul dollaro, a perseguire obiettivi di natura strategica e ad accogliere nuovi immigrati, “per percorrere – afferma Fabbri – un cammino obbligato. Per mantenersi nella storia”.
Un impero non può crollare per “capriccio di un leader”; esso può crollare solo quando si esauriscono le caratteristiche demografiche, culturali, geografiche, economiche che lo hanno generato”; una superpotenza, conclude Fabbri, citando lo storico Robert Kagan, “non può andare in pensione”, per cui sarà quasi costretta a conservare intatte le “condizioni che ne hanno determinato l’ascesa”, rimanendo “centro del mondo ancora a lungo”.
Per quanto convincente e supportata da fatti incontrovertibili, l’analisi di Fabbri resta pur sempre un’analisi parziale; ciò perché è condotta come se la superpotenza potesse continuare a reiterare la propria posizione egemonica nel vuoto. Se l’America vorrà continuare ad espandere la propria economia attraverso una globalizzazione che sia solo compatibile con i propri interessi nazionali, è inevitabile che i fronti, certo di natura non militare, coi quali dovrà confrontarsi, siano destinati ad allargarsi a dismisura; l’impero e l’egemonia che lo sottende potranno durare, non solo attraverso la conservazione dell’integrità delle rotte marittime e dell’area valutaria, in funzione dei suoi più convenienti traffici commerciali, ma anche se la superpotenza imperiale saprà convenientemente combinare l’”hard power”, che le deriva dalla sua indiscussa superiorità economica e militare, con il “soft power”, che nel passato ha contraddistinto la sua ascesa a livello globale. Ciò implicherà necessariamente che l’America, “facendo grande” se stessa, attraverso il motore del turbocapitalismo che alimenta la globalizzazione, non oscuri gran parte del resto del mondo, con la sola eccezione dei suoi più diretti competitori, Cina e Russia.

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  • 1 oggi mercoledì 6 settembre 2017 | Aladin Pensiero
    6 Settembre 2017 - 07:50

    […] La vocazione imperiale Usa e le promesse di Trump 6 Settembre 2017 Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi. Donald Trump ha vinto le elezioni promettendo ai “dimenticati d’America”, cioè a coloro che […]

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