Per la piccola Sofia e il grande Coppi ci voleva il chinino!

8 Settembre 2017
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Andrea Pubusa

Si narra che il medico militare di stanza a Nuxis durante la guerra, tal Ziccardi, all’annuncio dell’infermiere dell’arrivo di un ammalato in ambulatorio, senza neanche uscire a vederlo, dalla sua stanza, imperiosamente, gridasse la solita frase:”Dagli il chinino!“. Lo fece anche quando si presentò Giuanniccu Pilloni, che però aveva la gamba rotta, e solo allora visitò il malcapitato e cambiò la prescrizione.  Fu poi - com’è noto - la Fondazione Rockefeller a sconfiggere la malaria nell’Isola attraverso l’eradicazione per via chimica della zanzara Anopheles labranchiae, il vettore più importante e più diffuso della malaria in Sardegna.
Sarebbe bastato che la piccola Sofia Zago avesse avuto la fortuna di trovarsi davanti a un medico pratico di malaria come quello che c’era in bidda durante la guerra, per essere ancora fra noi. In fondo la bimba ha avuto la stessa sfortuna del “campionissimo”, di Fausto Coppi. Ebbe i primi sintomi della malattia, dopo un viaggio nell’Alto Volta, attuale Burkina Faso, per una corsa ciclistica il 13 dicembre 1959, un criterium, a Ouagadougou (vincerà Anquetil davanti a Coppi), accompagnata il giorno successivo da alcune battute di caccia nelle riserve di Fada N’gourma e Pama, non lontano dalla capitale. Dopo la caccia Coppi e Géminiani tornano all’accampamento di Fada N’gourma, occupano la stessa camera e nella notte vengono assaliti dalle zanzare, contraendo la malaria. L’indomani i due sono stanchi e debilitati, e rientrano insieme in aereo a Parigi, poi si separano, il francese torna a Clermont-Ferrand, il campionissimo a casa a Novi Ligure.
Il 20 dicembre Coppi e Géminiani si telefonano: sono entrambi febbricitanti. Quella stessa sera Géminiani perde conoscenza e viene ricoverato. La moglie Anne-Marie allerta immediatamente uno specialista di malattie tropicali, che invia una provetta di sangue all’Istituto Pasteur di Parigi. I medici rilevano la presenza nel sangue del plasmodium falciparum, il protista responsabile nell’uomo della malaria terzana maligna, la forma più violenta della malattia. Géminiani resta in coma otto giorni, ma viene curato con il chinino e salvato: si risveglierà il 5 gennaio. Coppi si reca invece all’incontro di calcio Genoa-Alessandria, spinto anche dalla curiosità di vedere all’opera l’astro nascente del calcio alessandrino e tutto italiano, Gianni Rivera, e nei giorni seguenti si reca anche a caccia nella sua riserva di Incisa Scapaccino.
Il 27 dicembre Coppi si mette a letto con febbre alta, nausea e brividi; due giorni dopo i parenti chiamano il dottor Allegri di Serravalle Scrivia, che a sua volta chiama a consulto il primario dell’ospedale di Tortona, prof. Astaldi, ma i due non riescono a fornire una diagnosi. Nel pomeriggio del 1º gennaio le condizioni del campione si aggravano ulteriormente; a Tortona giunge per un altro consulto anche il professor Fieschi, dell’Università di Genova. Coppi viene ricoverato d’urgenza prima a Novi e poi a Tortona: alle 22 del 1º gennaio perde conoscenza, alle 23 è in “pericolo di vita”, all’una di notte riprende conoscenza e parla con Ettore Milano, suo storico gregario; subito dopo entra in coma. All’ammalato è praticata una cura intensa a base di antibiotici e cortisonici, ma Coppi non reagisce. Non riprende più conoscenza e muore alle 8:45 del 2 gennaio 1960, all’età di quarant’anni.
I medici avevano sbagliato diagnosi, ritenendo Coppi affetto da un’influenza più grave del consueto, nonostante già a fine dicembre la moglie e il fratello di Géminiani, Angelo, avessero telefonato dalla Francia per avvertire che a Raphaël era stata diagnosticata la malaria (i medici italiani, raccontarono i congiunti di Géminiani, avevano risposto di pensare al proprio paziente che loro avrebbero provveduto a Coppi). Anche nella provetta del sangue prelevato a Coppi fu trovato il plasmodium falciparum, l’agente della malaria.
Anche Coppi, se si fosse trovato davanti il mitico medico militare di Nuxis, senza neppure essere visitato, avrebbe avuto la sua giusta dose di chinino e sarebbe rimasto ancora per molti anni fra noi.
Ora si cerca di sapere come la povera Sofia abbia contratto la malaria, ed è giusto, anche se affiora il pericolo di criminalizzare chi viene dal Continente nero e si fa veicolo involontario di strane malattie. Ma il punto non è questo. La questione seria è che in Italia non esistono medici che conoscono la malaria e in genere le malattie tropicali. E anziché girare intorno al problema, creando falsi fantasmi e molte paure, di questo occorrerebbe occuparsi. Non sembra una questione irrisolvibile.

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