Reddito di esistenza, un diritto naturale-fondamentale?

23 Marzo 2018
3 Commenti


Andrea Pubusa

Reddito di cittadinanza, Grillo: “Il lavoro retribuito non è più necessario, si dia a tutti un’entrata per diritto di nascita”

Reddito di cittadinanza, Grillo: “Il lavoro retribuito non è più necessario, si dia a tutti un’entrata per diritto di nascita”

 

Da quando nell’ottobre scorso al Convegno sul lavoro, organizzato dal nostro Comitato d’iniziativa costituzionale e statutaria, Gianfranco Sabattini insieme a Fernando Codonesu mi hanno dato gli elementi teorici fondamentali per comprendere il reddito di cittadinanza, non ho smesso di riflettere su tema. Mi son convinto ch’esso è un obiettivo centrale nello sviluppo delle nostre società, un salto in avanti rispetto al Welfare. L’altro giorno Sabattini ci ha ricordato come André Gorz parli di reddito di esistenza, ad indicare ch’esso è connaturato al venire in vita della persona.   Un’affermazione che evoca il principio personalista della nostra bella Costituzione. La persona, per il solo fatto di esistere, è dotata dei diritti fondamentali, che lo Stato non crea, ma semplicemente riconosce e garantisce (art. 2). Questi diritti sono inviolabili ossia incommerciabili, sottratti al mercato.
Ora in un post sul suo blog di Beppe Grillo si muove in questo contesto. Il garante M5s lancia l’idea che “si deve garantire a tutti lo stesso livello di partenza: un reddito, per diritto di nascita. Soltanto così la società metterà al centro l’uomo e non il mercato“. E la mitica copertura dei costi? “La capacità produttiva attuale è di gran lunga superiore alle nostre necessità. Abbiamo sovrabbondanza di merci. Ora si deve garantire a tutti lo stesso livello di partenza”. Il richiamo al principio di eguaglianza è immediato e diretto.
Beppe Grillo mostra ancora una volta d’essere avanti di molte spanne agli altri politici, in sintonia col pensiero economico e filosofico recente e risalente. Il quadro e il titolo del post “Società senza lavoro” evoca il pensiero di Paul Lafargue, comunardo e genero di Marx, che, nel suo celebre saggio “Il diritto all’ozio”, fin dal 1883 indicava la prospettiva di demandare alle macchine il lavoro che gli antichi greci riservavano agli schiavi, ritenendo la fatica fisica disdicevole ai filosofi e agli intellettuali.
Questa è anche la prospettiva generale di Beppe di fronte alla crisi. Siamo in un periodo di crisi, c’è la crisi e va superata. Sento ripetere queste parole all’infinito e non riesco a capire cosa stiamo cercando”. “Penso che prima di tutto questo non sia un periodo di crisi. Se lo fosse non durerebbe da più di 10 anni. Siamo di fronte a qualcos’altro. Questo si collega direttamente al fatto che probabilmente tutti stanno cercando, non solo nel posto sbagliato, un qualcosa che non c’è. O meglio, non c’è più. Per rispondere a questa crisi, per uscirne fuori, tutti cercano il lavoro. Ma siamo sicuri che il problema sia davvero il lavoro? Io penso di no”. Infatti, stando al ragionamento di Grillo, “il lavoro serve a produrre merci e servizi per soddisfare i bisogni dell’uomo. La nostra era è senza precedenti proprio per la sovrabbondanza di merci e servizi che abbiamo”. In questo contesto “si vuole creare nuovo lavoro perché la gente non sa di che vivere, si creano posti di lavoro per dare un reddito a queste persone, che non avranno un posto di lavoro, ma un posto di reddito, perché è il reddito che inserisce un cittadino all’interno della società”. Di qui la conclusione: “Si deve garantire a tutti lo stesso livello di partenza: un reddito, per diritto di nascita. Soltanto così la società metterà al centro l’uomo e non il mercato”.
Un piano teorico più avanzato rispetto a tutti gli altri politici e, in fondo, anche rispetto al contenuto del ddl del Movimento sul reddito di cittadinanza, in base al quale non si tratterebbe di un sussidio incondizionato in quanto ogni beneficiario dovrebbe iscriversi ai Centri per l’impiego e accettare una delle prime tre proposte di lavoro che gli verranno offerte.
Una Repubblica fondata sul reddito dunque non sul lavoro? Sì e no. Sì, perchè il reddito di esistenza dev’essere un diritto fondamentale della persona, che lo accompagna dalla culla alla tomba. No, perché il lavoro rimane centrale come fattore di impegno sociale, di crescita morale. Però muta segno. Non è la fatica necessitata dal bisogno, ma l’impegno libero per la società. Come quello di tanti giovani volontari in iniziative solidaristiche, o di molti di noi pensionati, che lavoriamo come prima, ma non per il reddito, per la democrazia, per la diffusione della cultura, per una società più giusta. Questo lavoro ci appaga forse più di quello fatto come diritto-dovere.

3 commenti

  • 1 Aladin
    23 Marzo 2018 - 10:18

    Reddito di cittadinanza e dintorni, anche su Aladinews: http://www.aladinpensiero.it/?p=80249

  • 2 gio
    23 Marzo 2018 - 11:03

    Caro Professore
    ritengo che nelle sue argomentazioni siano presenti due criticità di fondo:
    La prima di carattere “quantitativo”. Quella che lei definisce sovrabbondanza è, in realtà, la sovrabbondanza di pochi. Nel senso che, se guardiamo alle nostre società occidentali, questo è assolutamente vero. Ognuno di noi lo sperimenta anche nel proprio piccolo. Ogni giorno acquistiamo beni e servizi per noi o per i nostri figli, di cui, in larga misura, potremmo benissimo fare a meno. Se però osserviamo i fenomeni su scala globale, non possiamo non ammettere che la nostra sovrabbondanza si basa sulla disparità di condizioni di cui i popoli occidentali hanno fino ad ora usufruito a scapito dei rimanenti due terzi di popolazione del pianeta che paga con la fame, le guerre e il sottosviluppo la nostra sovrabbondanza. Da questo punto di vista non credo che, a livello complessivo si possa parlare di sovrabbondanza. Al contrario, stiamo dilapidando le risorse del pianeta ad un ritmo ben superiore a quello che un corretto equilibrio ecologico potrebbe consentire.
    La seconda osservazione è di carattere “qualitativo”. Siamo veramente sicuri che garantire un reddito minimo a ciascun individuo, slegato da una qualunque forma di contributo richiesto al singolo quale forma di contropartita sociale, sia il modo migliore di garantire lo sviluppo complessivo di una società ?
    Non voglio apparire come un liberista a tutti i costi, ma la teoria e l’esperienza economica, per lo meno a partire dalla rivoluzione industriale, mostra che un sistema economico si regge e garantisce il suo sviluppo se esiste un incentivo per ciascuno a svolgere la propria parte. Quale sarebbe l’incentivo ad impegnarsi in una qualche attività utile alla collettività per una persona che sa comunque di poter contare su un sostegno economico certo anche stando tutto il giorno a non far niente ?
    Caro Professore, la stimo molto. Sono stato suo allievo all’Università. Proprio per questo le dico che non deve fare l’errore di pensare che tutte le persone possano avere il suo stesso spirito di socialità, che tutti possano avere voglia di collaborare, nelle forme e con i limiti propri di ciascuno, al benessere comune.
    Per dirla in modo forse rozzo ma efficace, la maggior parte delle persone lavora solo se non può farne a meno.
    Non possiamo guardare il mondo con il prosciutto negli occhi. Sappiamo benissimo cosa succede quando si garantiscono, alle persone, sussidi economici slegati completamente da qualunque attività lavorativa. I risultati sono evidenti a tutti anche qui in Sardegna.
    La soluzione, credo, non può che essere quella secondo cui ognuno ha diritto ad aver garantite condizioni minime di dignità ma ha anche l’obbligo di contribuire allo sviluppo sociale secondo le sue possibilità.
    Una volta una persona che gestisce un centro di accoglienza per soggetti svantaggiati mi ha spiegato che, nella sua comunità, ad ognuno è garantito il necessario per vivere dignitosamente, a prescindere dalla quantificazione monetaria del suo lavoro. Ma ad ognuno è anche fatto obbligo di contribuire, nei limiti delle sua possibilità, al buon andamento della comunità. Questo credo sia il metodo da estendere alla società nel suo insieme.
    Saluti
    Giorgio

  • 3 Tonino Dessì
    23 Marzo 2018 - 14:32

    Concordo in linea generale sulle riflessioni contenute in questo articolo.
    È una questione complessa, che non andrebbe esorcizzata, ma affrontata con molto senso della prospettiva, perché investe tutta l’organizzazione sociale.
    Credo che, per quanto politicamente ardua, la questione delle coperture finanziarie non sia finanziariamente e tecnicamente preclusiva.
    Sappiamo tutti che semmai il problema è, oltre che agire e sulle entrate a peso fiscale invariato o se possibile ridotto (ma con chiusura radicale dei varchi per evasione ed elusione), soprattutto agire sulla spesa, riconsiderando anche alcune scelte apparentemente, per il senso comune, intoccabili (pensiamo a quelle militari, ma il campo è assai più vasto: da qualche parte comunque, le risorse per rilanciare un intervento pubblico in economia e nel
    sociale bisognerà trovarle, tagliando quel che occorrerà in altri campi).
    Sul terreno del lavoro, tanto in quello derivante dalla produzione di beni, quanto in quello connesso all’impiego nei servizi privati e pubblici, credo che nell’era della digitalizzazione occorra ugualmente affrontare aspetti ridistribuivi.
    Il “lavorare tutti” impone oggi una revisione anche di questioni come la durata della prestazione lavorativa, sia unitaria e giornaliera, sia in termini di età pensionabile.
    Ciò premesso, l’aspetto teorico ed etico più delicato riguarda il rapporto fra libera scelta delle attività individuali e doveri di solidarietà sociale.
    A me pare che la Costituzione (Art. 4: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere secondo le proprie possibilità e la proprio scelta, una attività o una funzione che concorra al progresso materiale e spirituale della società.”) non guardi con favore la libertà di non fare nulla, mentre richieda che una quota della nostra vita da cittadini sia dedicata anche ai fini sociali.
    Perciò un reddito di esistenza non potrebbe che essere anche un reddito di cittadinanza nel senso che alla corresponsione di un beneficio gravante sulla finanza pubblica debba corrispondere o la disponibilità al lavoro tipico o la disponibilità a prestazioni di pubblica utilità.
    In difetto si può godere delle prestazioni del welfare per la sussistenza dei bisognosi (Art. 38, primo comma: “Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale.”), ma di un vero e proprio “reddito” permanente e incondizionato direi di no.

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