Sarda rivoluzione: dal 1793 al 1796 o dal 1796 al 1812?

3 Giugno 2018
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Andrea Pubusa

Si parla enfaticamente di “Sarda Rivoluzione” per indicare il periodo che va dal 1793 al 1796, e cioè dalla mobilitazione contro il tentativo di sbarco dei francesi a Cagliari allo “scommiato” (cacciata) dei piemontesi del 1994 e alla sfortunata fine dei moti capeggiati da Giovanni Maria Angioy. Ma fu Rivoluzione? In realtà in questa prima fase, almeno i primi due episodi di rioluzionario non hanno nulla, salvo che per “rivoluzione” non s’intenda qualunque mobilitazione popolare a prescindere dai suoi contenuti. Semmai hanno un carattere rivoluzionario i fatti che vanno dai moti angioiani allo sbarco di Cillocco e Sanna Corda in Gallura e fino alla rivolta di Palabanda del 1812. C’è poi la azione carsica che porta ai moti di Alghero fino a congiungersi con gli avvenimenti nazionali che mettono capo alla Costituzione del 1821, poi revocata da Carlo Felice, e allo Statuto albertino del 1848.
Ma vediamo in sintesi i fatti.
Nel gennaio 1793 la Francia rivoluzionaria tenta di conquistare la Sardegna. I francesi occupano l’isola di S. Pietro (8 gennaio), Filippo Buonarroti proclama la Repubblica, dà una Costituzione e viene piantato l’albero della libertà in un clima di festosa accoglienza. Poi la flotta francese, comandata dal contrammiraglio Truguet, bombarda Cagliari (27-28 gennaio) e ai primi di febbraio (3-16 febbraio), sbarcati presso il Margine Rosso (litorale di Quartu), 4000 francesi tentano la conquista da terra di Cagliari. La reazione del viceré Balbiano e dei capi militari piemontesi, inizialmente incerti se resistere o arrendersi, è debole ed esitante. Una difesa più decisa viene sollecitata e organizzata dagli ecclesiastici e dai nobili che arruolano e armano compagnie di miliziani sardi. I Francesi, in un attacco disordinato si scompaginano, si prendono a fucilate tra loro e, ammutinatisi, costringono i loro comandanti a reimbarcarli. I Sardi – nobili, ecclesiastici, miliziani e popolo – hanno respinto l’attacco dei rivoluzionari francesi. Così il
Il 20-22 febbraio la flotta francese, fallito l’attacco per mare e per terra, lascia il porto di Cagliari. Cessato l’attacco e l’allarme nel marzo i miliziani e i volontari, che avevano partecipato alla resistenza contro i francesi, rientrano nei villaggi d’origine. Cosa abbia di rivoluzionario questa difesa dei Savoia dai francesi è difficile comprendere. Non manca un certo spirito patriotico. In questa intellettualità, pur intrisa di cultura europea e, dunque, aperta ai sommovimenti d’Oltremare, l’indipendenza dell’Isola era un valore primario. Ad un comando esterno, seppure di segno opposto a quello dei Savoia, pareva loro preferibile un’evoluzione interna, fondata sulle forze sociali sarde (Umberto Cardia) A ben pensarci, in loro doveva essere ben presente l’occasionalità della presenza dei Savoia a fronte della consistenza e stabilità dello Stato sardo esistente dal 1297. Non a caso il Regno di Sardegna aveva ancora le sue istituzioni. E queste andavano rinnovate e aggiornate senza però buttar via il bambino (lo Stato sardo) con l’acqua sporca (i Savoia). D’altra parte non sfuggiva a questi intellettuali la bizzarria di un re estraneo e straniero, con sede altrove. E loro dovevano avere ancora memoria che la Sardegna nella pace di Utrecht (1713-1714) era stata inizialmente assegnata a Massimiliano Emanuele di Baviera, principe illuminato, che aveva anche il proposito di trasferirsi a Cagliari per assumere il titolo di re e di rimanerci. Nella mente di questi personaggi dunque era ben presente che l’aspetto primario delle questioni era lo Stato sardo e la sua permanenza, il resto era importante, ma negoziabile e mutevole.
Ma è innegabile che tutte queste ragioni sono sovrastate da una considerazione di natura sociale. La Grande Rivoluzione mette in discussione alla radice i rapporti fra la classi ed è intuibile che i promotori della difesa di Cagliari contro i francesi temano non tanto i francesi in sé quanto la loro rivoluzione. Quindi, non sembra imprudente affermare che la difesa della Sardegna contro i francesi ha un preciso segno di classe ed ha carattere quantomeno moderato per non dire reazionario.
Questa considerazionen trova conforto negli accadimenti immediatamente successivi e nel voltafaccia di non pochi “democratici” quando i moti angioyani assumono un carattere di rottura. La torsione verso la Corona del gruppo che fa capo all’avv. Vincenzo Cabras ed Efisio Pintor Sirigu è emblematica. Il che fa sorgere dei dubbi sul fatto che questa élite debba configurarsi come «una sorta di grande fronte riformatore capace di interpretare, insieme ai grandi temi della riforma dello Stato, anche le istanze degli strati più bassi della popolazione cittadina» (Carta). Insomma, non pare che al di là delle apparenze si stagli nettamente il profilo di “un «Terzo stato» cagliaritano che manifesta la propria volontà politica attraverso alcuni circoli o club che per qualche tempo agiscono di concerto, soffiando sul fuoco del malcontento per l’accoglimento indecorosamente indifferente che la corte e il governo di Torino fanno ai deputati degli Stamenti latori delle «cinque domande». Se è vero che il 28 aprile 1794,  il detonatore dell’«emozione popolare» per lo «scommiato» dall’isola di tutti i piemontesi, vicerè compreso, è stato il tentativo di arresto di Vincenzo Cabras ed Efisio Pintor, è anche vero che gli sviluppi della vicenda mostrano che questo movimento limitava la “riforma” alla privativa in capo ai sardi delle cariche pubbliche, senza investire gli strati inferiori. Al di là di ogni enfasi, i promotori del movimento, che mette capo allo scommiato, più che a una rivoluzione sembrano mirare alla conquista di prebende in favore dei ceti cittadini sardi altolocati, quelli che insomma possono ambire alla cariche più importanti, ricoperte generalmente da piemontesi. Possiamo in questa aspirazione cogliere anche uno spirito “autonomista”, ma senza enfatizzarlo (Francioni, Carta). Sembra, in altre parole, eccessivo parlare addirittura di una pretesa di vera e propria autodeterminazione della società sarda (Francioni). L’evoluzione successiva delle posizioni di Vincenzo Cabras e compagni pare mostrare una prevalenza degli aspetti corporativi su quelli generali. Quali siano le ricadute favorevoli sui ceti popolari è difficile vedere. D’altronde, da tempo erano in campo sia a Cagliari che a Sassari sia nel contado varie rivendicazione degli artigiani, sopratutto contro i proprietari di case e il caro affitti, nonché contro i negozianti per l’aumento dei prezzi. In questo la sans-coulotterie sarda non aveva una condizione e aspirazioni diverse da quella parigina, ma nelle rivendicazioni ebbero un’indiscussa egemonia i rappresentanti della borghesia professionale (Francioni). Nelle cinque domande c’è la richiesta dell’esclusiva delle cariche ai ceti professionali sardi neanche un cenno alle richieste dei sanculotti locali.

Non mi sfugge certo l’importanza della mobilitazione dei gremi artigiani quale “palestra di educazione politica” (Francioni) e l’ombra lunga ch’essa getta sui fatti successivi fino al 1812, nè può essere svalutata la costituzione e messa in campo di una armata di miliziani sardi, una sorta di esercito popolare, con a capo Vincenzo Sulis e, ovviamente ai livelli intermedi di altri quadri, comandanti delle schiere di paese o di zona. E’ questa una forza che rimane in campo. Ma è una milizia rivoluzionaria? O è al servizio di quei ceti che alla fine puntano ad un compromesso “corporativo” con la monarchia? L’evoluzione della vicenda, con Vincenzo Sulis realista fino all’ottusità, e l’avv. Cabras e i suoi con un orizzonte che non va oltre il loro status personale e di ceto, mostra che questa forza militare fu giocata in chiave controrivoluzionaria, tant’è che è a capo di queste schiere che il Pintor, genero dell’Avv. Cabras, muove da Cagliari per affrontare e far fuori Giomaria Angioy alla fine della sua avventura, questa sì rivoluzionaria.

Ma proseguiamo nella sintesi dei fatti. Nel periodo che va dal 29 aprile al 18 maggio 1793 si tengono le riunioni degli Stamenti, con interventi e discussioni volti alla formulazione delle “Cinque domande”. Eccole:

  • Convocazione delle corti generali per trattare sopra tutti gli oggetti di pubblico bene.
  • La conferma di tutte le leggi, consuetudini e privilegi del Regno di Sardegna.
  • La privativa degli impieghi per i sardi (salvo per le cariche istituzionali più alte).
  • L’istituzione di un Consiglio di Stato che doveva essere consultato in tutti gli affari che prima dipendevano dall’arbitrio di un solo segretario.
  • Un ministro distinto in Torino per gli Affari della Sardegna.

Come si vede il quadro generale non viene messo in discussione. C’è una rivendicazione di autonomia. pur in un contesto rigidamente accentrato, quale era quello assolutistico dei Savoia. Emerge la richiesta di un maggior peso della classi dirigenti locali negli affari della Sardegna e una privativa negli impieghi, ad eccezione delle cariche politiche di raccordo col re.
Nel luglio 1793 si recano a Torino due dei delagati. Girolamo Pitzolo e Antonio Sircana, incaricati di presentare le “Cinque domande” al sovrano. Il 4 settembre giungono gli altri delegati – Domenico Simon, Michele Aymerich, Francesco Ramasso, Pietro Maria Sisternes. Così la delegazione degli Stamenti è al completo.
4 settembre
Il re Vittorio Amedeo III reagisce malamente, secondo lo stile dei Savoia, e ordina la sospensione delle sedute degli Stamenti.
Nel dicembre del 1793 la delegazione degli Stamenti viene finalmente ricevuta dal sovrano, per averne però solo promesse generiche. il 1° aprile 1794 il ministro Graneri, a nome di Vittorio Amedeo III, respinge le rivendicazioni delle “Cinque domande”. Il rifiuto non viene neppure comunicato alla delegazione ancora a Torino, ma inviato al viceré affinché lo comunichi alle prime voci dei tre Stamenti. Una delegittimazione totale della delegazione e delle deliberazioni stamentarie. Una provocazione a cui segue il 28 aprile 1794 l’avvio di una vasta azione repressiva con l’arresto di Vincenzo Cabras e Bernardo Pintor, ritenuti capi di un movimento patriottico. E’ il detonatore che fa esplodere l’insurrezione popolare nei quartieri di Stampace, Marina e Villanova. Gli insorti conquistano Castello e il Palazzo viceregio. Matura la decisione di cacciare i Piemontesi dalla Sardegna. La Reale Udienza, operante con i soli giudici sardi e con il supporto degli Stamenti e delle milizie popolari, prende in mano le redini del governo e realizza la prima esperienza di governo autonomo dei Sardi.
Il 7 maggio 1794 si materializza lo scommiato dall’isola di tutti i piemontesi, 514, compreso il viceré, ma esclusi l’arcivescovo di Cagliari e gli altri prelati.

Dopo lo “scommiato” fino ai moti angioyani

Subito dopo la cacciata dei piemontesi, nel luglio 1794 il re designa alle maggiori cariche del regno di quattro alti funzionari sardi, fedeli ai Savoia: Gavino Cocco (reggente la Reale Cancelleria), Girolamo Pitzolo (intendente generale), Antioco Santuccio (governatore di Sassari), Gavino Paliaccio , (generale delle armi). Il 6 settembre 1794  giunge a Cagliari il nuovo viceré, Filippo Vivalda.
Non si tratta però di un accoglimebnto parziale delle cinque domande. E’ il tentativo di riccompattare il fronte reazionario per regolare i conti con l’altro polo. E così nei primi mesi 1795, in combutta con il nuovo incaricato degli affari di Sardegna (conte Galli della Loggia), Paliaccio e Pitzolo progettano una sanguinosa repressione, inviano a Torino liste di proscrizione dei membri del “partito patriottico”, adottano provvedimenti polizieschi e intimidatori nei confronti dei deputati agli Stamenti. Le contromisure degli esponenti del partito patriottico non si fanno attender. Nel luglio 1795 il gruppo dell’avv. Cabras avvia una campagna di denuncia contro il progettato colpo di stato dei realisti, a capo dei quali stanno Pitzolo e Paliaccio. Gli Stamenti, in seduta congiunta chiedono al viceré la rimozione di Paliaccio e Pitzolo. Ma il popolo “pratica l’obiettivo”. Durante i tumulti popolari contro i progetti di restaurazione Pitzolo viene ucciso dalla folla il 6 luglio, Paliaccio il 22.
La reazione non passa a Cagliari e sposta il suo centro d’azione a Sassari, dove il governatore Santuccio, aggirando Stamenti e viceré, prende contatti con gli inglesi e con Torino per arginare una presunta offensiva francese in Sardegna. È, di fatto, un progetto di secessione da Cagliari. Infatti, ò’8 agosto 1795 i feudatari, clero, maggioranza del consiglio civico di Sassari indirizzano direttamente al re un documento in cui si denuncia la collusione tra riformatori e governo viceregio, ciò che li spingeva a disobbedire agli ordini di Cagliari e ad organizzare l’insurrezione.
Lo scontro diventa aperto, nel luglio settembre 1795 soprattutto nel Capo di Sassari , le comunità rifiutano di pagare i tributi ai feudatari; a Thiesi, Semestene, Bessude, Bonorva, Torralba, Pozzomaggiore, Ozieri, Ittiri, Uri i vassalli si ribellano e, talvolta armati, assaltano, devastano, saccheggiano palazzi e magazzini baronali. Il vicerè tenta di riportare l’ordine e  con un pregone del  10 agosto 1795 invita sindaci e consigli comunitativi a ricorrere presso il governo contro gli abusi dei feudatari, anziché passare alle vie di fatto. E’ un successo del partito riformatore, che cementa la saldatura tra movimento cittadino e movimento contadino antifeudale, tra rivendicazioni istituzionali e sociali.
Lo scontro si trasferisce al livello istituzionale. Il 29 agosto 1795 un biglietto regio (in effetti del conte Galli della Loggia) autorizza i sassaresi a non obbedire agli ordini del viceré qualora li ritenessero contrari ai loro interessi. La situazione è ormai ad un punto di rottura ed investe la storica contrapposizione fra Sassari e cagliari. Il 19 settembre 1795 le forze feudali e governative sassaresi chiedono formalmente al re la separazione del Capo di Sassari da quello di Cagliari.
E mentre nel settembre 1795 viene avviata un’iniziativa dei riformatori moderati per trovare una composizione delle posizioni delle forze feudali e secessioniste sassaresi col polo dei riformatori (missione dell’arcivescovo Melano presso la corte torinese, con la mediazione del papa), l’ala più decisa del fronte antifeudale, capeggiata da alcuni avvocati sassaresi (Gioacchino Mundula e Gavino Fadda ) e da preti rivoluzionari come Francesco Sanna Corda (Torralba) e Francesco Muroni (Semestene) intensifica la propria azione di propaganda e di organizzazione sul territorio. E così il  23 ottobre 1795 cinque commissari – Francesco Cilocco, Francesco Dore, Giovanni Onnis, Antonio Manca, Giovanni Falchi – vengono incaricati dagli Stamenti di verificare se nelle ville infeudate sia stato diffuso e applicato il pregone viceregio del 10 agosto. Cilocco, in particolare, offre un forte appoggio ai rappresentanti dei consigli comunitativi che denunciano gli abusi dei feudatari.
Il fronte antifeudale si espande e si struttura. Il 4 novembre 1795 i comuni di Thiesi, Cheremule, Bessude firmano il primo “strumento di unione e di concordia”, con cui dichiarano di non riconoscere più l’autorità del feudatario e di voler riscattare i carichi feudali tramite indennizzo. È la via legale e dal basso all’abolizione del feudalesimo in Sardegna. Entro il marzo successivo oltre quaranta villaggi sottoscriveranno gli «strumenti di unione».
Si passa alla lotta armata. Il 28-31 dicembre 1795 un esercito antifeudale di tremila contadini e braccianti (ma vi erano anche possidenti, sacerdoti, donne) guidato da Cilocco e Mundula assedia e prende Sassari. Il 31 Cilocco e Mundula, scortati da molti armati, lasciano Sassari alla volta di Cagliari conducendo come prigionieri il governatore Santuccio e l’arcivescovo Della Torre.
I fatti sassaresi – l’irrompere sulla scena urbana dei contadini e dei vassalli organizzati e armati – inducono i moderati e i conservatori di Cagliari e lo stesso viceré Vivalda ad iniziative comuni che blocchino quella che considerano una deriva rivoluzionaria contraria ai loro interessi e ai loro progetti. Inizia così l’avventura angioyana. Il 13 febbraio 1796 Giovanni Maria Angioy parte per Sassari.. Su indicazione degli Stamenti è stato nominato dal viceré alternos (rappresentante, sostituto) per il Capo di sopra, con l’incarico di affrontare il nodo delle rivolte antifeudali. Il 28 febbraio 1796 entra trionfalmente a Sassari di Giovanni Maria Angioy, nel quale molti vedono la guida del movimento antifeudale. E quando lo scontro si fa duro e Angioy decide di rimanere con fermezza nel fronte antifeudale, a Cagliari si consuma la rottura. I rinnovatori moderati – Sisternes, Cabras, Pintor, Sulis – abbandonano il campo riformatore e si alleano con le forze feudali più conservatrici e con l’alto clero. Questo è il fatto determinante dell’insuccesso dei moti angioyani, su cui ovviamente incide in modo assorbente la fulminea vittoria di Napoleone col conseguente armistizio di Cherasco.
La permanenza in Sardegna dei Savoia sposta gli equilibri e così gli Stamenti decidono per una stretta antigiacobina e ordinano l’espulsione da Cagliari dei seguaci più radicali di Angioy come Mundula e Fadda.
Mentre l’armistizio mette fine alle ostilità tra il Piemonte e la Repubblica Francese, il  2 giugno 1796 Angioy inizia la marcia verso Cagliari alla testa di contadini e prinzipales decisi ad imporre con la forza l’abolizione del feudalesimo. Ma il vento, in ragione della pace di Gherasco, è mutato. Già il 6 giugno 1796 a Macomer incontra una forte opposizione di nobili e pastori. Due giorni dopo Angioy raggiunge Oristano, dove l’iniziale buona accoglienza si muta in aperta opposizione quando le bande angioiane si danno alle violenze e al saccheggio, per poi disperdersi e lasciare isolato il loro capo.
L’8 giugno 1796 Vittorio Amedeo III pone in essere un colpo da maestro: accoglie integralmente le Cinque Domande; revoca le concessioni secessioniste ai sassaresi; concede un’amnistia ai coinvolti nei tumulti; autorizza il viceré e gli Stamenti a reclutare una milizia sarda, ormai fidelizzata a mezzo dei suoi capi, primo fra tutti Vincenzo Sulis.
Con quella mossa il re frantuma il movimento sardo e isola Angioy. La vecchia ala riformatrice fa fronte con quella reazionaria. Il 10 giugno, col consenso degli Stamenti e della Reale Udienza, il viceré destituisce Angioy dalla carica di alternos. Gli Stamenti, che lo avevano nominato, decidono di porre una taglia sulla sua testa. Aiutato dal Sulis, il Pintor esce da Cagliari alla testa della cavalleria di Sestu, Serramanna, Guasila, Samassi, Sanluri, Selargius, Serdiana, Villamar, Uras, con cannoni e milizie, deciso a stroncare definitivamente il moto angioiano. L’avventura di Angioy finisce qui. Il 15 giugno rientra a Sassari accompagnato da pochi fedelissimi. 17 giugno si imbarca a Porto Torres per un viaggio senza ritorno. Attraverso Aiaccio, Livorno, Genova, Milano, Torino, giunge a Parigi dove morì esule nel 1808.
In Sardegna si scatena la reazione. L’estate è insanguinata da feroci campagne repressive delle forze stamentarie contro i villaggi di Thiesi, Bono, Ossi, Usini, Tissi, Suni, Bessude. Ma il movimento antifeudale tenta una risposta. A fine agosto - metà settembre la rivolta antifeudale riprende sotto l’impulso di Cosimo Auleri e dei fratelli Muroni rientrati dalla Corsica. Da Bonorva e dai villaggi vicini partono schiere di contadini che tentano di attaccare Sassari. Ma la sorte di questo tentativo, questo sì rivoluzionario, s’infrange nella  seconda metà del 1796. Gli Stamenti domano la rivolta antifeudale con processi sommari e condanne a morte, forti pressioni nei confronti dei consigli comunitativi perché annullino gli “strumenti di unione”, l’invito al sovrano ad inviare truppe di repressione. Le forze feudali e i conservatori a Cagliari e a Sassari riprendono il controllo politico e sociale.
Ad uno sguardo di sintesi, non pare azzardato dire che la Sarda Rivoluzione parte dal 1796, dai moti angioyani, prosegue col tentativo del 1802 di Cillocco e Sanna Corda di instaurare la repubblica sarda, giù giù fino alla Rivolta di Palabanda di Salvatore Cadeddu.

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