Il Ministro Savona si racconta

3 Luglio 2018
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Gianfranco Sabattini

Dopo i giorni della “caccia all’untore”, l’opinione pubblica si è acquietata e può essere ripreso il discorso, al netto del confuso dibattito pubblico che ha accompagnato la formazione della nuova compagine di governo, sulle reali intenzioni di Paolo Savona, proposto come possibile Ministro dell’economia e delle finanze, di voler “sganciare” l’Italia dall’eurozona.
La ripresa del discorso è ora facilitata, non solo perché dopo i “dì di tempesta” è tornato il sereno, ma anche perché (ironia della sorte), nel momento in cui Savona veniva indicato come colui che avrebbe dovuto “traghettare” il Paese fuori dall’area dell’euro, faceva la sua comparsa in libreria un ponderoso volume recante la sua autobiografia. Dalla lettura del libro, “Come un incubo e come un sogno. Memorialia e Moralia di mezzo secolo di storia”, il lettore può facilmente convincersi che Paolo Savona, pur avendo da sempre criticato le modalità con cui l’Italia aveva aderito alla moneta unica dell’Unione Europea, non era il “bau bau” che, nei giorni ”arroventati” del dibattito politico, seguito ai risultati delle ultime elezioni politiche, si è inteso “dare in pasto” alla pubblica opinione.
Quello che è accaduto si può pertanto considerare (si fa per dire) un “incidente di percorso”, del quale Paolo Savona è stata la “vittima sacrificale” sull’altare della dialettica politica, per la qual cosa è del tutto giustificato che egli abbia affermato d’aver subito un’offesa personale immeritata. Ma quali sono le ragioni per cui a Savona, malgrado sia cresciuto, culturalmente e professionalmente, all’interno della massima istituzione monetaria del Paese, la Banca d’Italia, è stata “affibbiata” la fama di “spauracchio dell’euro”?
Per rispondere all’interrogativo, occorre “spremere” la sua ponderosa autobiografia, approdando alla conclusione che le sue critiche all’establishment economico-politico nazionale ed europeo non sono diverse da quelle (anche se formulate in termini meno rigorose) sostenute da altre parti, molto più integrate nell’establishment dominante di quanto non sia (o non sia stato) lo stesso Savona.
Forse, ciò che caratterizza la personalità del nuovo Ministro dei rapporti con le istituzioni europee è il fatto che le sue idee per risolvere il problema del debito pubblico italiano, maturato a seguito di una lunga crisi, che ha coinvolto banche e sistema economico nazionali, euro e Unione Europea, a seguito di una crisi globale della democrazia, vengano proposte per tornare ad un mondo che non esiste più e che è utopistico pensare di poter ricuperare.
“Ripercorrendo la mia esperienza di oltre mezzo secolo di partecipazione alla vita economica – afferma Savona – mi sono domandato come mai l’Italia si sia trovata in questa condizione”; cioè a disporre di un sistema economico avanzato, che da tempo non riesce più a funzionare normalmente e a creare valore per una sua equa ripartizione tra i cittadini, all’interno di un quadro istituzionale che non riesce a sconfiggere il radicamento, da un lato, del fenomeno della costante “ricerca della rendita” (in luogo del profitto) da parte di una consistente quota della classe imprenditoriale, e dall’altro lato, di quello del mancato “rispetto della legge”.
Si tratta di una condizione – continua Savona – il cui consolidamento ha impedito “il formarsi di quello che viene definito ‘capitale fiduciario’” sia negli aspetti interni sia internazionali, il quale ha pari importanza del capitale produttivo ed è esso stesso ‘istituzione’”. Secondo le intenzioni della dirigenza del Paese “più illuminata”, l’adesione all’Unione Europea doveva funzionare come “vincolo” idoneo a rendere ineludibile la costruzione del capitale fiduciario che il Paese non riusciva ad “accumulare” autonomamente; ma è stata “una scelta errata”, perché, sia pure a posteriori, “l’architettura istituzionale concordata – secondo Savona - non si è rivelata capace di propiziarlo”, oltre che in Italia, anche in altri Paesi membri dell’Unione. Per questo motivo, i due difetti prima indicati (ricerca delle rendita e mancato rispetto della legge) sarebbero stati interiorizzati dal corpo sociale dell’Italia, tanto da originare problemi che sono ora nello stesso tempo, irrisolvibili e impossibili da rimuovere.
La conclusione di Savona è che, soprattutto per l’Italia, ma anche per l’Europa, solo “una migliore istruzione a tutto campo può rappresentare la risposta nel lungo termine”; ciò, perché la terapia per rimuovere i due fenomeni negativi, causa dei mali attuali del Paese e dell’Europa, non può essere individuata sulla base delle sole conoscenze dell’economia. Di qui, la speranza di Savona che il racconto della sua esperienza possa rappresentare “un contributo alla messa a punto del necessario programma educativo”, per tornare alla crescita e all’aumento del benessere. Ma qual è il “back round” esperienziale che conduce il Ministro dei rapporti con le istituzioni europee a questa radicale, e per certi versi pessimistica, conclusione? Per rispondere occorre esporre succintamente il risultato del processo, come lo chiama lo stesso Savona, di astrazione-teorizzazione delle conoscenze che egli ha acquisito dalla sua più che cinquantennale esperienza come “grand commis” dello Stato” e responsabile della direzione di importanti organizzazioni private.
Savona compie l’astrazione-teorizzazione della sue esperienze nella prospettiva di un’economia di mercato di tipo capitalistico, quale è l’economia italiana, inquadrata “in un’architettura giuridica che garantisce le libertà individuali e sociali”, che si trovi però, per le ragioni anzidette nell’impossibilità di perseguire con successo “la crescita del reddito e dell’occupazione, l’equa distribuzione delle risorse, la sicurezza interna ed esterna e la tutela dell’ambiente”. In una siffatta economia, i fatti economici sono il risultato dei comportamenti individuali posti in essere all’interno dell’architettura giuridica descritta, il cui funzionamento sia retto dai tre pilastri fondamentali di ogni economia di mercato avanzata: rispetto della regola democratica, Stato e mercato.
In un’economia di mercato, la regola democratica è, innanzitutto il perno su cui si regge la “convivenza civile”, rispetto alla quale il popolo è il “potere costituente”, che decide le regole della convivenza, nel cui ambito hanno “un peso importante i principi di cittadinanza”. Quindi, lo Stato è il presidio della volontà popolare, nel senso che è chiamato ad impedire che questa volontà resti inattuata, o “venga sostituita dalla volontà di altri poteri costituiti”; affinché ciò non avvenga, lo Stato deve essere governato da una “struttura giuridica” che sia sempre impegnata a realizzare le finalità sancite nella Costituzione. Il mercato infine, è il terzo perno della convivenza civile; purtroppo, dopo aver funzionato in modo conforme al principio della competizione perfetta tra gli agenti economici, per contrastare gli effetti negativi seguiti al progressivo affievolimento del principio della concorrenza, esso ha accolto molte istanze sociali che gli erano originariamente estranee. Con la globalizzazione, l’ampliamento delle funzioni ha avuto l’effetto di farlo prevalere sullo Stato e di trasformarlo in una fonte di obblighi aggiuntivi (rispetto a quelli costituzionali), riguardanti il modo di produrre, i livelli occupazionali e le modalità di distribuzione del reddito.
In tal modo, il ruolo dei tre perni istituzionali, che sarebbe dovuto consistere nel presidiare il corretto funzionamento di un’economia di mercato inserita nel contesto internazionale, qual è quella italiana, è stato alterato. Ciò ha comportato che, in luogo delle Costituzione, a dettare l’agenda politica del governo fossero le oligarchie, operanti “al di fuori della volontà democratica correttamente intesa”, come accade ora in Italia e nell’Unione Europea. Accade così che l’Italia non sia più in grado di onorare gli obblighi derivanti dal rispetto dei principi fondamentali statuiti dalla propria Costituzione.
Al riguardo, secondo Savona, è paradigmatica l’inattuazione, ad esempio, di quanto dispone l’articolo uno della Costituzione repubblicana, che afferma essere l’Italia una Repubblica fondata sul lavoro. Il rispetto da parte dello Stato dell’obbligo di assicurare il pieno impiego della forza lavoro implica un impegno finanziario che non deve compromettere l’equilibrio dei conti pubblici; ma se l’espansione del bilancio pubblico non trova un limite nel rispetto dei vincoli del pareggio e di quelli posti dalla concorrenza internazionale, diventa inevitabile l’ingovernabilità del mercato, con effetti negativi tanto più generalizzati, quanto più il sistema economico, come capita a quello italiano, è trainato dalle esportazioni.
Quando gli obiettivi sociali ed i vincoli di mercato cessano di essere conciliati, è inevitabile l’affermarsi di una situazione politica, com’è accaduto in Italia, di incertezza e di sfiducia, destinata a tradursi nella pretesa, da parte di chi è disoccupato, di disporre di un reddito a valere sul bilancio pubblico; situazione, questa, che, oltre che pesare sull’economia dal lato del bilancio pubblico, aggrava anche la tensione sociale, perché – afferma Savona – “del sussidio (ammantato della definizione etica di reddito di ‘cittadinanza’ o di ‘inclusione’) beneficia anche chi non cerca lavoro o lo rifiuta perché indesiderato o gravoso”, dando fiato all’ideologia non interventista o a quella neoliberista.
Poiché i principi fondanti della Costituzione italiana, espressi, dopo la fine del secondo conflitto mondiale, da una visione conciliante del liberalismo con l’interventismo pubblico in economia, sono venuti meno a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, gli squilibri sociali che ne sono seguiti hanno dato luogo a maggiori pressioni da parte dei cittadini, perché fossero assistiti al verificarsi di ogni situazione di crisi economica. La conseguenza è stata l’espansione del bilancio pubblico e dell’indebitamento dello Stato, che hanno generato “una lotta perenne, priva di sbocchi concreti, tra governanti ed elettori”; lotta che si è ritenuto di “poter governare prendendo impegni internazionali per provvedervi”.
Infatti, i gruppi dirigenti dominanti in Italia hanno pensato di aggirare l’ostacolo del crescente impegno dello Stato attraverso “una modifica di fatto della Costituzione con i Trattati di Maastricht e quelli successivi”, cedendo la sovranità monetaria; di conseguenza, l’attività politica “indicata nel dettato costituzionale del 1948 è stata modificata”, a seguito dello smarrimento delle idee sul come l’intervento pubblico dovrebbe essere gestito in un’economia di mercato inserita nel mercato globale. In altri termini, è stata smarrita, secondo Savona, la necessità che l’operatività del mercato mondiale fosse sempre conservata in equilibrio con il funzionamento dei mercati degli Stati che in esso operano; che le democrazie nazionali dovessero sempre conciliare i propri comportamenti con i vincoli derivanti dal comportamento degli altri Stati e dal rispetto delle regole dettate dal mercato globale; che la politica dovesse sempre assicurare la compatibilità degli interessi dei poteri forti con quelli dell’intero popolo; infine, che a livello internazionale si agisse sempre per riformare le istituzioni, quando queste dovessero operare in modo da “appesantire” l’azione politica dei singoli Stati, volta a promuovere la “crescita reale e il benessere sociale”, compatibilmente con il rispetto della diversità degli interessi di tutti i popoli.
La firma dei Trattati europei, ricorda Savona, era stata sorretta dall’ideale di realizzare un’Europa unita e in pace; l’unificazione economica posta in essere, però, ha fatto emergere il conflitto tra la concezione della “competizione economica-meritocratica generatrice di crescita reale, occupazione e profitto e quella dell’uguaglianza sociale”; essendo stata privilegiata questa seconda concezione, si è avuta una continua crescita del debito pubblico di alcuni Paesi comunitari, che ha condizionato il corretto funzionamento economico dell’intero mercato unico realizzato. L’alternativa cui si è fatto ricorso per risolvere i problemi originati dall’aumento del debito pubblico è stata duplice: alcuni Paesi sono tornati a forme di neoliberismo, con minore intervento pubblico, mentre altri, tra i quali l’Italia, “hanno rafforzato l’assistenza per rendere socialmente più accettabile la distribuzione delle risorse a prescindere dall’incremento della crescita reale”. Nell’un caso e nell’altro non è stato ricuperato il corretto funzionamento dei sistemi economici, a danno, perciò, di tutti.
In conclusione, secondo Savona, per ricuperare “una vita economica ispirata dal senso della misura richiede di stabilire un equilibrio di sopravvivenza tra le tre istituzioni poste a presidio del sistema delle libertà individuali: democrazia, Stato e mercato”. Tale sistema dovrebbe tendere: a “democratizzare la democrazia invece che de-democratizzarla”, come è accaduto e come sta accadendo; a ricondurre lo Stato al “ruolo di gestore della volontà democratica”; e a “ridare al mercato le sue piene funzioni di gestore delle risorse”, fornendo assistenza laddove è necessaria e “legittimando il profitto ottenuto con continue innovazioni di processo e di prodotto”. Per conservarsi stabile e risultare inclusiva, una società civile richiede, perciò, che le risorse crescano e siano distribuite equamente nella legalità. “Quanto più un Paese si discosta da questo ideale, tanto più degrada sul piano economico e su quello sociale”.
Sulla base della “astrazione-teorizzazione” che Savona presenta della sua esperienza, è plausibile ricavare o dare – e lo si è fatto - un’immagine della sua persona come un “cavaliere di ventura” che, “con lancia in resta”, è determinato, se messo in una posizione di responsabilità nel governo del Paese, a muovere contro l’appartenenza dell’Italia all’Eurozona? Certamente no; semmai ciò che si può osservare, riguardo alle conclusioni cui perviene la sua autobiografia è che egli mostri nostalgia per un passato che non può più essere ricuperato; Savona, in sostanza, rimpiange il patto tra capitale e lavoro di keynesiana memoria, che ha consentito all’Italia, dopo il secondo conflitto mondiale, di modernizzarsi e di dotarsi di un sistema di protezione sociale che, alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, è entrato irreversibilmente in crisi, con l’avvio del processo di globalizzazione delle economie nazionali.
Savona manca di considerare che, parallelamente all’approfondimento della globalizzazione, il mondo economicamente più avanzato è passato dall’età dell’”economia della scarsità” a quella dell’”economia dell’abbondanza”, che sta provocando la crescente incapacità delle economie avanzate di garantire una distribuzione del prodotto sociale attraverso la partecipazione al lavoro.
La logica di funzionamento dell’economia dell’abbondanza, infatti, distrugge, anziché creare, posti di lavoro; per questa ragione, diventa sempre più urgente riflettere su come realizzare il finanziamento della domanda aggregata dei sistemi economici avanzati, andando oltre il welfare State, ormai non più in grado di garantire, contemporaneamente, come nel passato, crescita, benessere e libertà d’iniziativa. E’, questo, un obiettivo che il nostalgico ritorno al passato auspicato da Paolo Savona non consente di conseguire; sarà giocoforza aprirsi ad una visione del futuro che implichi il superamento dell’attuale welfare, garantendo un accesso universale e incondizionato ad un reddito di base, che non può essere reso possibile attraverso i tradizionali meccanismi distributivi.

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