Città e territori. Il Paese intero nel vicolo cieco del vecchio sistema

16 Agosto 2018
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Red

 

Il crollo del ponte Morandi, forse meglio di ogni altro accadimento, è l’emblema del crollo di una certa Italia. Di quella delle mega opere senza nessuna proiezione sulle esigenze future di manutenzione e di gestione. Senza alcuna valutazione sull’utilità presente. Emerge l’immagine di un ceto politico impastato con un ceto imprenditoriale, che più che sull’intrapresa e sull’innovazione cresce e si arricchisce sulle commesse di Stato, in uno scambio che è fonte di corruzione e di inquinamento della vita pubblica.
Dal Paese si alza una voce forte per dire basta, per voltar pagina, che fa schizzare verso l’alto i consensi nei confronti di questo governo, quando dice di voler individuare le responsabilità e i responsabili e di voler revocare la concessione alla soc. Autostrade. Sale anche la consapevolezza che le privatizzazioni in settori strategici sono un’abdicazione dello Stato a quel compito primo ed elementare che è la sicurezza e la difesa dei cittadini. Il PD e FI, che del vecchio sistema sono i massimi responsabili, subiscono un altro colpo, rispetto al quale la loro opposizione, anche verso gli aspetti beceri del salvinismo, appaiono armi del tutto spuntate. 

Su questi temi ci sembrano interessanti le riflessioni di Paolo Berdini ed altri sul Manifesto. Eccole.

il manifesto
CITTÀ E TERRITORIO. DA 7,3 A 2,2 EURO A KM LA SPESA PER LA MANUTENZIONE
di Paolo Berdini

«Infrastrutture. La manutenzione della rete capillare che fa vivere il sistema Italia è stata cancellata dalle politiche dei tagli di bilancio. Non c’è comune italiano che abbia le risorse per la cura ordinaria e straordinaria del proprio patrimonio infrastrutturale»

Le città e i territori costano. Bisogna costruire infrastrutture, ponti, servizi. Bisogna poi tenere in vita e in sicurezza quelle opere. Servono risorse umane ed economiche. Nella storia delle nostre città e dei territori questa legge ineludibile è stata sempre rispettata. Il sistema della manutenzione era un elemento prioritario della vita nazionale e c’erano le istituzioni pubbliche che presidiavano quella fondamentale funzione. L’Upi, Unione provincie italiane afferma che la spesa per chilometro (ci sono 152 mila chilometri di strade regionali e provinciali) in pochi anni è passata da 7,3 a 2,2 euro a chilometro. Nulla.

La manutenzione della rete capillare che fa vivere il sistema Italia è stata cancellata dalle politiche dei tagli di bilancio. Non c’è comune italiano – si può’ affermare con certezza – che abbia le risorse per la manutenzione ordinaria e straordinaria del proprio patrimonio infrastrutturale. Servirebbero somme imponenti. Lo sviluppo lineare della rete stradale comunale supera il milione di chilometri. Sicurezza e decoro della vita di tutti i cittadini necessiterebbero di alcune centinaia di miliardi di euro. Ci sono soltanto tagli.

Il ponte di Genova non era un’opera minore. Era un’infrastruttura nevralgica del sistema paese. Evidentemente la follia liberista non si è fermata alle opere minute. E’ dilagata in ogni settore, comprese le opere affidate in concessione, come il sistema autostradale italiano. E mentre l’imponente sistema nazionale va in rovina continua l’assedio per costruire altre opere stradali. Domina una cultura imprenditoriale che comprende solo i processi incrementali e non si occupa del tema della manutenzione gettando il paese intero in un pericolosissimo vicolo cieco. E’ la stessa logica perversa che sta facendo marcire un immenso patrimonio immobiliare pubblico in ogni luogo urbano poiché non ci sono risorse per rimetterlo in vita. Evidentemente qualche potentato immobiliare o finanziario vuole acquisirlo a poco prezzo impoverendo tutti i cittadini.

La manutenzione attiva viene disprezzata a confronto della cultura del “nuovo”. Un tragico errore. Non c’è giorno in cui un chiacchiericcio insopportabile ci dice che il futuro è in concetti fumosi come le smart city. Penso con dolore di fronte a tante vite umane distrutte, a quali prospettive per le più innovative aziende e per i giovani potrebbero diventare realtà avviando l’istallazione di sensori che tengano sotto osservazione tutti i ponti stradali esistenti ponendoli a sistema attraverso tecnologie satellitari. Anas ha in programma di realizzare un tale sistema sui suoi 12 mila viadotti ma bisogna passare all’immenso patrimonio diffuso di 50 mila viadotti, molti di vecchia concezione. Servono centinaia di miliardi.

Facile a dirsi. Difficile a farsi in tempi di scomparsa del concetto di Stato e di assenza di risorse pubbliche.

Solo tre esempi. Un decreto ministeriale del 2001 prevedeva la costituzione del catasto della rete stradale italiana, opera prioritaria per poter programmare. Non è stato fatto nulla e per sapere qualcosa dobbiamo ricorrere a studi di Unioncamere.

Dopo ogni terremoto si sentono le solite chiacchiere. Intanto non è ancora avviato un concreto piano di messa in sicurezza del patrimonio edilizio esistente e il recente terremoto dei monti Sibillini ha finanziamenti modesti. Un intero territorio montano è abbandonato da due anni. Frane e smottamenti sono una costante in un territorio giovane e tormentato come il nostro. Manca ancora di essere completata la carta geologica e il censimento delle frane e il loro monitoraggio.

Il tragico crollo di Genova può essere uno spartiacque per avviare il paese sull’unica prospettiva di crescita, quella della messa in sicurezza e della manutenzione specialistica che apra al settore produttivo italiano la prospettiva di un salto culturale e tecnologico. Spiace che di fronte a questo scenario ci siano importanti forze imprenditoriali che hanno preso a pretesto questa immane tragedia per portare acqua alla realizzazione di grandi opere.

L’Italia ha certo bisogno di alcune opere che rendano moderno il sistema infrastrutturale. A patto di discuterne in modo maturo e trasparente con le comunità cittadine e – soprattutto – riversare ogni risorsa umana, progettuale e economica pubblica sulla prospettiva del salto tecnologico e culturale che il paese attende.
la Nuova Venezia

«LA MAGGIOR PARTE DEI NOSTRI PONTI STA MALE

E I CONTROLLI LI FANNO SOGGETTI INTERESSATI»
Intervista di Alberta Pierobon a Carmelo Maiorana

«Da quando l’ha saputo, ha passato ogni minuto della giornata a pensarci. Va da sé, la tragedia di Genova ha sconvolto tutti ma su di lui ha scavato un baratro. Perché nella sua testa, come in un film, si sono succedute le immagini della radiografia del ponte Morandi crollato e l’elenco delle responsabilità». Lui si chiama Carmelo Maiorana, ha 64 anni, non procede per ipotesi, piuttosto per analisi: è ingegnere strutturista, ordinario di Scienza delle costruzioni all’università di Padova. Ma prima delle questioni tecniche e delle relative spiegazioni, per forza si fa strada con angoscia un’analisi anche questa strutturale. Purtroppo strutturale, che riguarda un malcostume tutto italiano.


Come mai, professore, nessuno ha colto i segnali che hanno portato a questa tragedia?

«Questo è il problema. In Italia siamo indietro e tanto. La maggior parte dei nostri ponti ha necessità di un monitoraggio ininterrotto e di manutenzione costante. Operazioni che hanno dei costi».

Quindi è mancato il monitoraggio?

«Qui un altro problema. Io sostengo che chi si occupa dei controlli dovrebbero essere persone fuori dai giochi, persone che dicano la verità, libere di dire la verità. Invece spesso proprio chi è incaricato di monitorare, la verità non la dice: il perché è facile da spiegare. Perché dicendola teme di non avere più lavori di consulenza. E’ semplice, ed è questo il malcostume».

Un malcostume che quando presenta il conto, lo presenta in vite, vite umane.

«Per questo sarebbe necessario, fondamentale, che chi si occupa del monitoraggio avesse il coraggio di mettere sotto accusa chi fa male i lavori, e senza paura. Sarebbe fondamentale che fossero persone fuori dai giochi».

In Italia com’è lo stato dei ponti, in generale?

«La maggior parte risale al Dopoguerra, e il calcestruzzo armato dopo 50-60 anni ha bisogno di essere un osservato speciale».

A cosa ha pensato appena sentita la notizia dello spaventoso crollo? A quale causa?

«Subito ho pensato a un cedimento di fondazione. Invece così non è stato. Si è visto chiaramente dalle prime immagini: il pilone centrale è rimasto lì, non è crollato. Ho scrutato immagini e foto, tutto quello che ho trovato».

Quindi qual è la sua spiegazione?

«Quel ponte era una struttura fortemente degradata. Dopo 50 anni gli attacchi chimici e atmosferici hanno fatto la loro parte, a maggior ragione vicino al mare. Solfati e cloruri causano l’erosione del copriferro, la parte esterna del calcestruzzo armato. Dunque le armature rimangono a nudo e l’azione corrosiva avanza. E il pericolo di crollo diventa enorme. Questo è successo. Altro elemento che emerge è l’apparente assenza di segni premonitori, quindi di rottura fragile o dovuta a instabilità: questo fa presumere che sia avvenuta una crisi instabile delle parti compresse delle strutture di sostegno. E il crollo per instabilità dell’equilibrio è improvviso a meno che il manufatto non sia stato monitorato per lungo tempo con apposita strumentazione, anche in grado di percepire le emissioni acustiche date da eventuali microfessurazioni in atto. Per questo sono fondamentali il monitoraggio e la manutenzione: la durabilità delle strutture è un tema di cui ci stiamo occupando, le tecnologie ci sono».


Se ne vedono tanti ponti in queste condizioni? 

«Sì, tanti. Troppi. Li vedi, tutti arrugginiti, malconci».

Come si possono ripristinare?

«O si smontano e direi che è una soluzione improbabile oltre che estremanente costosa o si ripristinano con varie modalità, ripeto le tecnologie ci sono».

il manifesto
QUEI LAVORI URGENTI ATTESI DA VENT’ANNI

di Andrea Fabozzi

«Il mostro di Genova. La caccia alle responsabilità parte dal pessimo stato degli “stralli” denunciato da tempo. Il governo sembra puntare l’indice sul gestore Autostrtade per l’Italia. Che ai genovesi disse: il ponte Morandi è malato, ma non crolla. Per averlo ricordato, il movimento No Gronda finisce sotto accusa. Eppure la grande opera non prevede l’abbattimento del vecchio viadotto

Era prevedibile, previsto, annunciato. Come sempre nelle tragedie, ma qui si tratta di un ponte alto 90 metri, largo 18 e lungo oltre un chilometro le cui cattive condizioni erano impossibili da ignorare. Non le ignorava Autostrade per l’Italia, la società concessionaria, che parlava di «intenso degrado della struttura» già sette anni fa. Anche se ieri ha assicurato che «non c’era nessun elemento per considerare il ponte pericoloso». E invece non si contano i pareri di ingegneri, strutturisti e tecnici delle costruzioni in genere che da tempo lanciavano allarmi sullo stato di salute degli “stralli”, i tiranti di acciaio che in questo particolare tipo di ponte sono chiusi nel cemento armato precompresso. Tant’è che, non fosse crollato ieri, il pilone al centro della ponte sarebbe stato sottoposto a un colossale lavoro di ristrutturazione da oltre 20 milioni di euro. Un’opera di retrofitting, secondo la definizione della gara di appalto chiusa a giugno, in pratica il tentativo di ammodernare una struttura vecchia di cinquant’anni.

Era l’unico ponte “strallato” di tutta la rete autostradale italiana, e «la statica di un ponte di questo tipo dipende fondamentalmente dallo stato di salute degli stralli», ha spiegato ieri il direttore dell’Istituto della costruzioni del Cnr Occhiuzzi. I tiranti del Morandi si corrodevano e perdevano tensione più velocemente di quanto era stato previsto all’epoca della costruzione, quando oltretutto il volume di traffico attuale era inimmaginabile. Tant’è che negli anni Novanta i cavi di uno dei tre piloni da 90 metri erano già stati rinforzati e nel frattempo alcuni cavi esterni erano stati montati per contenere i pericoli. C’era stata anche l’immancabile interrogazione parlamentare, del senatore genovese Rossi, che nel 2016 chiedeva senza risposta cosa il governo intendesse fare di fronte al «preoccupante cedimento dei giunti».

Nel marzo di nove anni fa, nel corso di uno dei dibattiti pubblici che si tennero a Genova sul progetto della «Gronda autostradale» a ponente, che avrebbe sottratto parte del traffico al ponte Morandi, un rappresentante di Autostrade spiegò che il viadotto «costa 250mila euro l’anno di manutenzione straordinaria». E poi aggiunse: «Il ponte non sta benissimo, ma non è ancora morto. E non crolla». Due mesi dopo davanti alle commissioni consiliari di Genova, i rappresentanti di Autostrade fornirono altre rassicurazioni sulla sicurezza e stabilità dell’opera a seguito dell’intervento degli anni Novanta (come si legge nel documento conclusivo del dibattito pubblico). Le rassicurazioni sono state poi riprese dai «No Gronda», e ieri un vecchio post sul sito del Movimento 5 Stelle in cui si parlava della «favoletta dell’imminente crollo del ponte Marconi» è stato indicato come prova delle responsabilità di chi si è opposto alla nuova opera. Resta il fatto che l’ultimo progetto della Gronda non prevede l’abbattimento del ponte Marconi.

A spingere per la nuova grande opera è ovviamente Autostrade, la società il cui 90% del capitale è nelle mani del gruppo Atlantia, maggiore azionista Benetton – ieri in borsa ha bruciato oltre un miliardo di capitalizzazione perdendo oltre il 5%. Immediatamente dopo la tragedia, i ministri Salvini e Toninelli hanno aperto la caccia ai responsabili: «Pagheranno caro». Il ministro grillino delle infrastrutture ha avvertito che «la manutenzione a qualsiasi livello compete ad Autostrade mentre ai tecnici del ministero compete seguire gli interventi straordinari». Straordinario era appunto l’intervento che, più di vent’anni dopo, avrebbe dovuto completare la messa in sicurezza. Straordinario è pagato con fondi pubblici. Mentre i lavori in corso al momento del crollo, si è chiarito nel corso della giornata, non erano altro che un intervento per «riqualificare» le barriere di sicurezza, nulla a che vedere con la statica.
La società concessionaria Autostrade per l’Italia nel 2017 ha registrato ricavi per quasi quattro miliardi. Merito quasi esclusivo dei pedaggi al casello. Una sorta di tassa i cui ricavi però vanno solo in minima parte allo stato. Come spiega l’ultimo rapporto al parlamento dell’autorità di regolazione dei trasporti, sono cresciuti del 35% negli ultimi otto anni.

 

 

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