L’urgenza di una nuova carta autonomistica e federalista per la Sardegna

7 Ottobre 2018
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Gianfranco Sabattini

Gian Giacomo Ortu, noto studioso di storia della Sardegna e docente di Storia moderna presso l’Università di Cagliari, ha pubblicato di recente, per i tipi dell’editrice CUEC, “L’intelligenza dell’autonomia. Teorie e pratiche in Sardegna”. Il libro è di grande interesse, perché, nella fase attuale, riproporre i termini del dibattito (al quale hanno partecipato nomi illustri del mondo della cultura e della politica isolane, i cui testi occupano la prima parte del volume), svoltosi in rapporto al “tipo” di “Autonomia” accordato alla Sardegna dallo Statuto speciale.
L’interesse del libro sta soprattutto nella sua seconda parte, contenente le “Riflessioni” dell’autore sui limiti dell’autonomia regionale sarda; riflessioni che Gian Giacomo Ortu riassume nell’ultimo scritto (riportato in chiusura fuori numerazione e “scaturito da un intenso scambio di idee con Salvatore Cherchi”), nel quale sono illustrate, non solo le critiche formulate al tipo istituzionalizzato di autonomia, ma anche la prospettiva teorica, quella federalista, alla quale ricondurre qualsiasi progetto di riforma dello Statuto, al fine di porre rimedio agli aspetti del “principio di autonomia” sacrificati alla fine del 1948.
Riguardo alle critiche, è opportuna qualche ulteriore riflessione, che potrebbe risultare utile in sede di progettazione dei tentativi, auspicati da Ortu, per perseguire nell’immediato futuro, sulla traccia di una presunta “grande tradizione federalista italiana”, una possibile ridefinizione della “specialità” dello Statuto, consentita dalla riforma del 2001 del titolo V della Costituzione; la “ridefinizione” dovrebbe attuarsi mettendo in atto “pratiche federaliste”, attraverso “iniziative politiche di segno autonomistico”, partecipate da una popolazione che, pervasa dal “principio di autonomia” presente nel retaggio culturale dell’Isola, dovrebbe garantire il supporto sociale necessario a “portare il confronto con lo Stato sino a quel limite oltre il quale apparirà necessaria la ridefinizione della sua forma costituzionale” in senso federale.
L’attuazione di questa ipotesi di progetto politico presuppone che la popolazione della Sardegna, nel momento dell’approvazione dello Statuto, sia stata deprivata del fondamento della sua identità culturale.  Un “oscuramento della personalità e soggettività” del popolo sardo, da  ricondurre alla responsabilità di gran parte delle forze politiche regionali che, presenti alla Costituente, che non hanno impedito quella riduzione.
Secondo Gian Giacomo Ortu, l’oblio nella lettera dello Statuto del retaggio culturale della Sardegna sarebbe dipeso dal fatto che la motivazione della “specialità” sia stata formulata con l’accento posto prevalentemente sulle condizioni di grave svantaggio economico che caratterizzavano l’Isola alla fine del secondo conflitto mondiale, trascurando o sminuendo il retaggio culturale dei sardi.
L’elemento che, in particolare dopo la Liberazione, ha impedito ai portatori del “pacchetto delle richieste”, valutate non eludibili, in favore della Sardegna (da parte dei suoi rappresentanti più consapevoli), è stata la pervasività delle ideologie che tutti i partiti, organizzati su base nazionale (con l’eccezione della presenza, al loro interno, di sparute e, perciò, ininfluenti minoranze), hanno posto a fondamento dei loro programmi; con la loro pretesa totalizzante, tali ideologie sono risultate chiuse all’accoglimento delle istanze realmente autonomistiche.
Per queste ragioni, le istanze libertarie e autonomistiche sono state “sedate”, con l’istituzionalizzazione di un ordinamento regionale, che è valso a fare introiettare ai sardi (e non solo a loro) un modello organizzativo politico-amministrativo omogeneo a quello dello Stato burocratico e accentratore, che le ideologie totalizzanti nazionali hanno concorso ad affermare e ad imporre alle varie articolazioni regionali del Paese. La vocazione al centralismo dell’Italia del dopoguerra, “ovattata” dall’ordinamento regionale, è valsa a smentire la supposta esistenza della presenza nella cultura italiana di “una grande tradizione federalista”, come del resto sta a dimostrare il cammino, accidentato e tortuoso, percorso dall’istanza federalista dalla raggiunta Unità del Paese sino ai nostri giorni.
In Italia, la discussione sulla natura del decentramento istituzionale ha sempre accompagnato, sia pure in modo discontinuo, il confronto tra le forze politiche. A fronte della soluzione unitaria che le forze conservatrici proponevano per la soluzione del problema dell’organizzazione dello Stato dopo il conseguimento dell’Unità nazionale, si è contrapposta la posizione libertaria e progressista di chi pensava di salvaguardare, attraverso la soluzione federalista, l’eccessivo potere dello Stato unitario, organizzato su basi centralistiche, opponendogli una pluralità di poteri locali.
La scelta di dare vita, con la Costituzione repubblicana, ad un ordinamento regionale potrebbe dare l’impressione che con esso si sia voluto realizzare quel processo di decentramento istituzionale che ha sempre “tormentato” la vita politica nazionale. In realtà, l’ordinamento regionale, pienamente attuato a partire dagli anni Settanta del secolo scorso (con successivi “aggiustamenti”, culminati nella modifica, nel 2001, del Titolo V della Costituzione) ha prodotto solo l’illusione che la sua realizzazione segnasse la sconfitta definitiva del mito del centralismo.
Con l’istituzione delle regioni, infatti, si pensava che lo Stato unitario avesse iniziato a cedere spazio a processi di decentramento istituzionale, riducendo, e in qualche caso annullando parzialmente, la differenza tra Stato unitario e Stato federale e inducendo a pensare che fosse stata aperta la strada verso il governo locale. Ovviamente, Stato federale e Stato regionale non sono la stessa cosa; ciononostante, il processo di decentramento, realizzatosi dopo il secondo conflitto mondiale, ha aperto al Paese la strada verso il trasferimento di poteri decisionali alle autonomie territoriali.
La tendenza ha però, nel caso dell’Italia, assunto caratteri del tutto specifici, in quanto la distribuzione delle competenze tra centro e periferia è avvenuta senza una preventiva riorganizzazione del territorio; fatto, questo, che ha consolidato e reso quasi irreversibile la “polverizzazione” delle istituzioni locali e con essa le difficoltà che hanno impedito agli enti locali di acquisire una loro soggettività giuridica, realmente autonoma ed efficace; fenomeno, quello della “polverizzazione” che, né lo Stato unitario post-risorgimentale, né lo Stato repubblicano del secondo dopoguerra, né l’ordinamento regionale inaugurato dopo gli anni Settanta sono riusciti a rimuovere.
Nonostante il superamento dell’assetto verticistico dello Stato unitario, la strada, aperta dopo il 1945 (che avrebbe dovuto condurre verso il governo locale), ha continuato così a risultare accidentata, a causa dalla contrapposizione di due posizioni politiche: quella della riforma dell’originaria dimensione delle istituzioni locali, da un lato; e quella della conservazione della loro dimensione, come unica soluzione della quale i loro residenti potevano convenientemente avvalersi per accedere ai vantaggiosi trasferimenti pubblici, a compensazione del proprio stato di arretratezza economica e sociale.
L’accoglimento dell’istanza federalista e l’individuazione delle modalità con cui essa può essere attuata trovano ora un ostacolo anche nella “confusione”, calata sul possibile riordinamento istituzionale del Paese, dopo il risultato del referendum costituzionale del 4 dicembre del 2016. Questa situazione, in assenza di rimedi istituzionali assunti a livello nazionale, sottolinea la necessità indifferibile che, nei singoli territori regionali siano realizzate delle istituzioni adeguate a promuoverne e a supportarne il processo di crescita (quantitativa) e di sviluppo (qualitativo); ciò, sulla base dell’assunto che nessun centro decisionale esterno sia in grado di suggerire, in alternativa alle comunità locali, le modalità di crescita e di sviluppo più rispondenti alle potenzialità dei singoli territori.
Per promuovere e supportare la crescita e lo sviluppo dei territori sub-regionali, secondo modalità più appropriate rispetto a quelle sin qui praticate, spetta ad ogni regione, in quanto livello più prossimo ai singoli luoghi, dotare questi della soggettività istituzionale necessaria, organizzata secondo una nuova prospettiva di funzionamento dell’intera struttura istituzionale regionale. In questa prospettiva, la regione dovrebbe configurarsi, da un lato, come centro svolgente un “ruolo di regia” e di coordinamento tra tutti i progetti espressi dal basso dalle popolazioni dei territori; da un altro lato, la regione dovrebbe divenire un “polo di equilibrio dinamico” tra le forze che tendono all’accentramento del potere decisionale e le possibili derive localistiche che, sempre al suo interno, potrebbero avere luogo.
L’uscita dall’attuale stato di inefficienza istituzionale in cui versa la Sardegna (e, in generale tutte le regioni), dovrebbe significare un “ritorno al territorio”, attraverso un riordino delle autonomie locali, realizzato sulla base di due linee di azione: una prima linea, volta a definire in modo oggettivo le specificità di ogni contesto territoriale dell’intera area regionale, congiuntamente alla individuazione della sua dimensione materiale; una seconda linea, finalizzata ad individuare l’insieme delle istituzioni più adatte a consentire il governo dal basso di ogni singola area locale.
Se la prima linea di azione è volta a determinare le specificità proprie di ogni territorio e della sua dimensione, la seconda è orientata a individuare la qualità delle istituzioni locali, al fine di configurarle, in termini di apprendimento da parte delle popolazioni residenti nei singoli territori, del modo di valorizzare le risorse disponibili, con l’attivazione di un processo che, coinvolgendo le intere comunità locali, porti ad una valorizzazione ottimale delle loro potenzialità sul piano progettuale.
E’ in questa prospettiva che assume rilevanza l’ipotesi avanzata da Gian Giacomo Ortu; ipotesi che, per diventare realistica, impone, come egli afferma, il massimo impegno sul fronte della formazione e diffusione di una cultura autonomisica e su quella della chiamata in causa delle popolazioni delle autonomie locali come principali soggetti protagonisti “della rifondazione su base federale della nostra autonomia”.
E’ senz’altro questa la via che può incidere sulle sorti future dell’Isola, che non potrà oscurare la necessità di individuare i principali obiettivi contro i quali organizzare il confronto: l’organizzazione attuale della Regione e la cultura politica che sinora è valsa a garantirle il supporto. Una volta sconfitte l’una e l’altra, per realizzare una nuova governance regionale fondata sulle “pratiche federaliste” prospettate da Ortu, diverrà possibile orientare il confronto anche ai più alti livelli istituzionali (nazionale ed europeo), sino al limite - come lo stesso Ortu afferma - oltre il quale apparirà conveniente l’adozione generalizzata di un’organizzazione costituzionale secondo principi federalisti; risultato, quest’ultimo, che consentirà di ridefinire il potere decisionale ai vari livelli territoriali, sulla base del generale “principio di autonomia”.

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