ll tempo come misura del lavoro e della qualità della vita. Un focus sul lavoro femminile.

9 Ottobre 2018
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Luisa Sassu

Venerdì, in una sala affollata e attenta, si è svolto il Convegno indetto dal Costat sul Lavoro, alla presenza di illustri relatori, da De Masi a Sabattini a Tagliagambe. Nell’incontro sono stati presentati due volumi. Il libro che raccoglie gli scritti del Convegno dello scorso anno: “Lavorare meno, lavorare meglio, lavorare tutti” - Aracne editore, curato da Fernando Codonesu, e quello di Domenico De Masi, “Il lavoro nel XXI secolo”, Einaudi ed.
L’incontro è stato presentato da Andrea Pubusa, seguito da diversi interventi di esponenti del Costat, Tonino Dessì (Lavoro e Costituzione), Gabriella Lanero (Lavoro e Scuola), Gianna Lai (recensione al libro relativo al Convegno dell’anno scorso) e Luisa Sassu, con la relazione che qui presentiamo. Fernando Codonesu ha poi introdotto il prof. De Masi, interloquendo con lui.
Prossimi appuntamenti del Costat: un incontro sul decreto sicurezza a metà ottobre e uno sulle elezioni regionali all’inizio di novembre. Com’è noto, il Comitato non fiancheggia alcun partito, non dà indicazioni di voto a liste o a candidati, ma immetterà nella campagna elettorale i temi caldi che interessano la Sardegna e i sardi. Sarà dunque una presenza sui contenuti, con due indicazioni generali: battere il centro destra e votare chi, fuori dal centrodestra, si è apertamente schierato con il NO al referendum costituzionale promosso dal governo Renzi.
Ecco ora la relazione di Luisa Sassu.

Voglio premettere che, contravvenendo a tutte le regole estetiche dell’arte oratoria, ripeterò spesso e pedantemente la parola tempo. Lo farò per comodità espositiva, ma, soprattutto, lo farò per sottolineare il valore semantico della parola, che esprime una categoria dell’esistenza e non trova altrettanto pregio evocativo nei sinonimi o nelle infinite declinazioni che pure alleggerirebbero questo intervento dal peso delle ripetizioni.
C’è stato un tempo in cui, il tempo, segnò il processo di emancipazione dello schiavo consentendo al diritto romano di distinguere per la prima volta il tempo della libertà da quello dell’assoggettamento, il tempo della vita dal tempo del lavoro. In questa rappresentazione storica e giuridica, il lavoro si identificava col tempo impegnato nella prestazione lavorativa, primo indicatore della differenza fra il lavoro servile e quello cosiddetto libero; il tempo, inoltre, fungeva da strumento per calcolare il compenso del lavoratore.
Nella nostra bellissima lingua logudorese, con riferimento ad un’economia agricola di un tempo ormai remoto, un’economia fatta di molti braccianti e pochi avidi latifondisti, il lavoro si identificava direttamente col tempo: “so andende a sa zoronada”, si diceva, per intendere “sto andando a faticare” e quella “zoronada” significava dall’alba al tramonto per un compenso che consisteva in un pugno di grano.
Ebbene, è del tutto evidente che un tempo di lavoro così lungo, che impegnava praticamente l’intera giornata, rendeva il cosiddetto lavoro libero molto simile al lavoro servile.
Non è un caso, quindi, che moltissime (possiamo dire le prime e più importanti) lotte organizzate dei braccianti e della classe operaia avessero come obiettivo la riduzione del tempo del lavoro. Ci sono pagine straordinarie che raccontano queste battaglie, e nel mio personale bagaglio, anche sentimentale, mi piace ricordare ciò che rappresentò Giuseppe di Vittorio per i braccianti di Cerignola e poi per tutte le lavoratrici e i lavoratori del nostro paese.
Il tempo, dunque, come elemento costitutivo del rapporto di lavoro subordinato, che, in una fase più evoluta rispetto ai richiami storici che ho citato, ha concorso a definire la nozione giuridica di “orario di lavoro”, per poi costituire la base, nelle realtà produttive più sindacalizzate, per avviare una dialettica sull’intera organizzazione del lavoro all’interno delle aziende.
Ancora oggi, l’orario di lavoro rappresenta un elemento distintivo tra il lavoro subordinato e quello autonomo (al quale meglio si adatta il concetto ampio di “tempo di lavoro”): molti contratti collettivi fanno ancora riferimento al suono della sirena come segnale di avvio della prestazione lavorativa. Deve far riflettere, tuttavia, il fatto che esistano tipologie di lavoro subordinato, che, in ragione delle funzioni svolte nell’organizzazione produttiva (si pensi alle dirigenze) sono svincolate dall’orario di lavoro o hanno un vincolo di orario assai attenuato.
Questa constatazione di fatto introduce una chiara indicazione sulla possibilità di agganciare l’apprezzamento della produttività e, a cascata, l’organizzazione del lavoro e la misurazione del salario, ad un parametro diverso dall’orario di lavoro. In un contesto di evidente mutamento dei sistemi produttivi (che introduce irreversibilmente nuove tecnologie anche nel manifatturiero) liberare il tempo della vita dal tempo del lavoro dovrebbe rappresentare la sfida delle contrattazioni collettive e delle legislazioni, anche per contrapporre un modello di civiltà e di diritti all’ulteriore impoverimento dei lavoratori (come invece è avvenuto e sta avvenendo proprio in ragione del mutamento irreversibile di molti sistemi produttivi).
Dovrebbe perciò tornare d’attualità quel “lavorare meno, lavorare tutti” che ha ispirato molte battaglie sindacali e alcune legislazioni, sapendo che è arrivato il momento cruciale per interrompere la china del lavoro sfruttato di immense masse di lavoratrici e lavoratori nell’economia globale.
In questo quadro generale, perché un focus sul lavoro femminile?
Per una scelta che è, al tempo stesso, di metodo e di contenuto.
Per tornare brevemente alla storia, ricordo che già agli inizi del secolo scorso, nei settori produttivi a forte presenza femminile (per esempio il tessile), furono importantissime, tra le altre, le battaglie per la riduzione dell’orario di lavoro ai fini di consentire alle lavoratrici madri di svolgere anche il lavoro di cura nell’ambito familiare, ciò che oggi si chiamerebbe “conciliazione”.  Quelle battaglie avvenivano in un contesto storico e culturale che, ovviamente, non metteva in discussione la millenaria divisione dei ruoli all’interno del contesto familiare e perciò la “liberazione dai tempi del lavoro” non corrispondeva ad una effettiva liberazione dalla fatica che attendeva le donne tra le mura domestiche.  Pur tuttavia, quella richiesta di conciliazione introduceva nelle realtà produttive un elemento problematico che ancora esiste e che, soprattutto negli ultimi decenni, ha conosciuto delle utilissime elaborazioni cui ha fatto seguito  l’emanazione di una legislazione di pregio sia in Europa che in Italia.
Un focus sul lavoro femminile propone quindi un metodo, come abbiamo detto, che ha l’ambizione di ribaltare la prospettiva delle analisi e delle proposte in materia di lavoro, normalmente calibrate su un oggetto neutro, cioè non connotato dal genere, nonostante sia ormai acquisito al bagaglio delle analisi il fatto che il tempo agisce in modo diverso se riferito al lavoro femminile rispetto al lavoro maschile.
Alcuni esempi: nella fase di accesso al mercato del lavoro (soprattutto in un mercato del lavoro che offre ben poco) il tempo può rappresentare una  ragione di rinuncia per una madre se il salario proposto rende assai poco conveniente l’affidamento dei figli ad una babysitter (stante anche  la cronica mancanza,  nel nostro Paese,  di asili nido e di luoghi per l’accoglienza dei bambini); nei contesti lavorativi è dimostrata la minore disponibilità delle donne-madri a prolungare l’orario di lavoro, e ciò incide sia sulla retribuzione (determinando quel differenziale retributivo che ancora esiste fra uomini e donne) che sulle progressioni in carriera (che normalmente esigono un “presidio” attento degli spazi e del tempo in azienda). Il mancato accesso delle donne ai vertici dell’organizzazione produttiva, il famoso tetto di cristallo, spesso dimostra che le competenze, nelle organizzazioni, pesano meno della disponibilità di tempo che gli uomini possono ancora offrire in misura maggiore, grazie al persistere di una squilibrata ripartizione delle responsabilità genitoriali e, in generale, del lavoro di cura nella sfera familiare.
Ebbene, rispetto a questi dati, che ancora non sono stati superati dal “libero svolgersi delle dinamiche di mercato”, le contrattazioni aziendali e le legislazioni attente alla conciliazione di tempi di vita coi tempi di lavoro (in Italia, la legge 53/2000), offrono un modello che ha l’ambizione di partire dalle esigenze del lavoro femminile per informare di sé il lavoro di tutti. Nei paesi del Nord Europa, per esempio, la massiccia estensione dei congedi parentali ai padri ha mostrato i suoi effetti positivi sia sull’occupazione femminile, che sulla natalità: la condivisione del lavoro di cura ha perciò inciso sia sulle organizzazioni del lavoro, sia sulle famiglie, sia sulla società.
Questi esempi di articolazione delle organizzazioni con riferimento al tempo dimostrano che è arrivato il … tempo… di attenuare il peso del fattore tempo nella misurazione della prestazione lavorativa e del salario, immaginando che le profonde trasformazioni delle modalità di produzione possano diventare il presupposto, non per peggiorare le condizioni di vita delle lavoratrici e dei lavoratori, ma, al contrario, per costruire piattaforme contrattuali e legislative che consentano di lavorare meno,  lavorare tutti e lavorare meglio, come recita il titolo di questo convegno.
Luisa Sassu

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