Paulo Guedes, stato minimo e turbocapitalismo

3 Novembre 2018
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Brasile. Tutto il potere al futuro ministro dell’economia, autentico Chicago boy, ma con una una sola cattedra a tempo pieno: nel Cile di Pinochet

 

All’inizio di ottobre del 2017, su O Globo appare un commento che denuncia il «vuoto politico al centro» della campagna elettorale brasiliana e suggerisce il modo di riempirlo: «Bolsonaro è il fenomeno elettorale di una destra che difende legge e ordine, valori di una classe media indignata per la corruzione nella politica, la stagnazione in economia e la mancanza di sicurezza nelle strade». Lo firma una vecchia conoscenza dei mercati del Brasile, l’economista Paulo Guedes.

SEMBRA FATTO APPOSTA, e forse è così: lo staff di Jair Bolsonaro contatta Guedes, gli spiega che il programma economico del candidato al momento non esiste, quando spunta l’idea di un superministero l’economista abbandona di corsa la candidatura del presentatore televisivo Luciano Huck (di Rede Globo, tanto per restare in famiglia) e si imbarca con l’ex capitano.

E il mercato risponde: il giorno della presentazione ufficiale l’indice Ibovespa si impenna nonostante la crisi, la borsa benedice.

SOLO TRE MESI PRIMA, Bolsonaro era un pittoresco dichiaratore seriale razzista, omofobo e nostalgico della dittatura, che le sparava sempre più grosse pur di restare nel mazzo dei quattro-cinque candidati dietro il dominatore Lula. L’ingresso di Guedes e più tardi la sentenza che esclude Lula cambiano la storia, e le percentuali dei vecchi uomini di fiducia del mercato – l’eterno Alckmin, il compromesso Meirelles, il mite Amoêdo, l’ambigua Marina Silva – cominciano a sbriciolarsi. Finiranno tutti polverizzati.

PAULO ROBERTO NUNES GUEDES, 69 anni, è un autentico Chicago boy, discepolo di quella scuola di liberisti dell’Illinois che ha preso il Nobel con Milton Friedman e si è quindi esercitata in molti turbo-capitalismi del pianeta, a suon di privatizzazioni di massa e Stato minimo. È talmente un Chicago boy che, pure se è chiamato professore, ha avuto una sola cattedra a tempo pieno: all’Università di Santiago all’inizio degli anni 80, con Pinochet al governo, atenei sotto controllo militare e centinaia di studenti desaparecidos. Di economisti di Chicago la junta cilena si circondava, il brasiliano fa la sua figura e torna in patria. Dove però non lo attende una carriera accademica, ma il mercato dei capitali. Fonda il Banco Pactual e più tardi il gruppo Br Investimentos, poi venduto al gigante finanziario Bozano, di cui Guedes è socio. Insomma, accumula soldi a mezzo di soldi, non trascurando di firmare editoriali su O Globo e di fondare l’Instituto Millennium, un think tank ultraliberista che attacca costantemente «la dittatura intellettuale della sinistra».

IL PROGRAMMA del prossimo ministro da fazenda è thatcheriano. Indipendenza della banca centrale, indipendenza del superministero dell’economia, privatizzazione di tutte le aziende pubbliche – solo quelle federali sono 147, tra le quali autentici giganti del petrolio, dell’elettricità, dei servizi: un’orgia che può valere 500 miliardi di dollari e durare decenni – per ridurre il debito pubblico brasiliano ma soprattutto riformare la previdenza, dal sistema attuale (pensioni pagate dai prelievi sui lavoratori attivi) alla capitalizzazione individuale, quanto versi tanto prendi. Flessibilità del mercato del lavoro, tassa sul reddito fissa al 20%, esenzione per chi guadagna fino a cinque volte il salario minimo, forse persino una piccola imposta sui movimenti finanziari ma solo per chi ritira dividendi, niente per chi reinveste in azienda.

PER NON FARSI MANCARE NIENTE, Paulo Guedes entra per la prima volta al governo già indagato, per un’inchiesta sul trattamento sospetto di grandi investimenti pagati da alcuni fondi-pensione (Operação Greenfield). Inoltre il direttore del gruppo Bozano, Oswaldo Prado Sanchez è stato arrestato per una storia di dollari in nero accumulati a milioni su un conto presso Morgan Stanley a New York.

TRA LO STATALISTA CAMPALE Bolsonaro e lo statalista minimo Guedes sono già scoccate scintille, il primo ha dovuto ordinare il silenzio-stampa sulle «nuove imposte» (puro veleno, in campagna elettorale), il secondo ha dovuto calmare i diplomatici cinesi infuriati perché Bolsonaro contestava l’acquisto di miniere e dighe che la Cina aveva appena pagato miliardi di dollari. Sarà curioso vederli spingere verso il radicalismo reaganiano un parlamento di 30 partiti. E chissà chi sarà a spingere e chi a guidare davvero.

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