Il M5S vuol toccare la Costituzione. Al di là delle proposte, il contesto non è rassicurante, meglio lasciar perdere

10 Gennaio 2019
1 Commento


Andrea Pubusa

Ha ragione Alfiero Grandi, vice presidente del Coordinamento per l democrazia costituzionale, quando sul Fatto del 9 lamenta che a Palazzo Chigi si aggira un virus che colpisce molti dei suoi inquilini e li spinge a cambiare la Costituzione, quasi una prova per entrare nella storia. Secondo Grandi la lezione del 4 dicembre 2016 non è stata ben capita neanche da coloro che erano dalla parte giusta, come i pentastellati.
Per Grandi semmai la questione istituzionale urgente è  la legge elettorale, per eliminare la stortura  della nomina dall’alto dei parlamentari. Urgente è anche il rilancio della centralità del parlamento, secondo gli impegni presi da Fico all’insediamento finora ancora in alto mare. Anzi assistiamo alle stesse forzature (decreti legge, voti di fiducia, uso dei regolamenti) che erano state criticate ai precedenti governi, con in più la novità di leggi approvate a scatola chiusa.
E’ ormai inarrestabile anche il treno per l’attuazione dell’art 116 con un regionalismo differenziato che porta al risultato di rompere l’unitarietà dei diritti fondamentali che lo Stato, attuando la Costituzione, dovrebbe garantire in tutto il paese: sanità, istruzione, ecc. I cittadini italiani avrebbero sostanzialmente diritti differenziati su base regionale e in particolare il Sud verrebbe fortemente penalizzato. Qui il peccato d’origine sta nella revisione del titolo V, ad opera della sinistra nel 2001, che voleva così far concorrenza alla Lega di Bossi, a riprova del fatto che gli scassi della Carta producono i loro frutti avvelenati anche a distanza di anni. Qui è in gioco la solidarietà nazionale fra regioni, che poi, intaccando l’organicità della finanza pubblica a favore del settentrione, accentua il divario Nord/Sud; l’esatto contrario di quanto prevedeva l’originario art. 119, che costituzionlizzava la questione medidionale e insulare. e spingeva verso l’annullamento dello storico dualismo italiano.
Ora in tema di democrazia diretta c’è la novità  del referendum propositivo. Era un tema assai dibattuto nella sinistra qualche decennio fa. Il Centro per la riforma dello Stato, presieduto da Ingrao, ne aveva fatto uno dei suoi cavalli di battaglia. Tuttavia nel testo del Ministro Fraccaro ci sono dei punti problematici.  Anzitutto quello del quorum. con o senza quorum di validità. Il ministro è per il no. Tuttavia, sembra più ragionevole introdurre un quorum, seppure inferiore al 50%. In Sardegna, ad esempio, nella seconda metà degli anni ‘80 su mia proposta (con una intenso scambio con Tonino Dessì, allora nella segreteria regionale del PCI) il Consiglio regionale ha approvato una integrazione della legge sarda sui referendum (L.R. 15 luglio 1986, n. 48) al tempo abbastanza innovativa. Proprio sulla scia dell’elaborazione del Centro per la riforma dello Stato di Ingrao abbiamo introdotto il referendum consultivo o di indirizzo indicando nel 30% il quorum costitutivo. Sul tema occorre considerare che il tasso di vincolatività per le Camere è alto se la partecipazione al voto è consistente, in caso di scarsa partecipazione non si vede quale stimolo l’esito referendario possa costituire per il Parlamento. Risulterebbe anche priva di senso, in caso di non approvazione della proposta referendiaria da parte delle Camere, la sottoposizione successiva a consultazione della proposta popolare in contrapposizione ad un testo parlamentare. Il sistema sembra dunque favorire una contrapposizione fra una parte del corpo elettorale e il parlamento del tutto improduttiva e dispersiva. Più che un arricchimento della democrazia rappresentativa il meccanismo proposto rischia di infliggere un altro colpo al ruolo del parlamento. Ora si apprende che c’è convergenza in Commissione Affari Costituzionali per un quorum al 25%.
Ci sono poi proposte per introdurre il vincolo di mandato, che oggi la Costituzione esclude, ma è inutile negare che, in un contesto di scarsa etica pubblica, più che una garanzia di libertà per i parlamentari il divieto di mandato rappresenta lo strumento per un nefasto proliferare dei cambi di casacca. Forse qui la proposta di Gustavo Zagrebelsky di sanzionare il turismo politico con la decadenza dal mandato in caso di salto di schieramento potrebbe essere una strada da esplorare.
Inoltre c’è la proposta di riduzione del numero dei parlamentari. Motivata solo dal contenimento della spesa è una stupidata. Paradossalmente abolire il parlamento farebbe risparmiare di più. E’ l’argomentazione usata con scarso successo da Renzi per giustificare la sua proposta di sopprimere il Senato. Non lo è, se invece la riduzione è rapportata al miglioramento del funzionamento del Parlamento. Anche Ingrao la propose in questa chiave insieme al monocameralismo, con elezione però integralmente proporzionale e facoltà di scelta da parte degli elettori dei rappresentanti.
La discussione sul ruolo del parlamento, sulla sua composizione e sulle innovazioni istituzionali collegate va fatta con molta cautela. Personalmente, dopo le cattive prove di questi anni, propenderei per non toccare la Carta, che in fondo finora ha dato buona prova di sè. Riflettendo sulle vicende di questi ultimi anni, mi sto convincendo che in fondo il sistema di pesi e contrappesi della nostra Carta, ivi compreso l’equilibrio delle forze indotto dal sistema proporzionale, impedisce le forzature cui conduce spesso l’avere maggioranze ampie ma fittizie, frutto, più che del consenso, di leggi elettorali truffaldine. Non sono in discussione i buoni propositi del Ministro Fraccaro, tuttavia il M5S sembra sottovalutare il fatto che, una volta aperta una stagione di revisione della Carta, data anche l’innaturale alleanza con Salvini e la sua attuale forza contrattuale, c’è il rischio concreto di risultati imprevedibili e non auspicabili.

1 commento

Lascia un commento