Sardegna dopo le elezioni. Un difficile “che fare?”

11 Marzo 2019
2 Commenti


Tonino Dessì

La prevedibile modestia del discorso di Massimo Zedda e la mestizia della platea evidenziata dalle riprese televisive dell’Assemblea di Fordongianus anticipano la cifra prevedibile del centrosinistra nella legislatura regionale che si aprirà non appena avrà termine l’incredibilmente lento scrutinio delle schede elettorali, nel quale gli uffici giudiziari stanno supplendo al flop dei seggi ordinari.
Per inciso, dalle notizie ufficiose che si hanno, più che i difetti della legge, molto sembra aver influito nel flop l’impreparazione dei presidenti di seggio.
L’interpretazione dei segni tracciati dagli elettori, anche in un sistema che ammette l’irragionevole pratica del voto disgiunto, non consente materialmente troppe incertezze: sembra tuttavia che si sia verificata una diffusa confusione più logica che giuridica.
Tornando alla politica, i numeri comunque non lasciano spazi a illusioni: nonostante l’apertura tutta di circostanza al M5S fatta da Zedda, l’opposizione in Consiglio regionale non avrà campo di gioco.
Potrà solo contare sulle possibili contraddizioni interne ai gruppi di una maggioranza variegata, nella quale tuttavia il peso del gruppo del PSd’Az si aggiungerà a quello (c’è davvero poco da ironizzare, almeno sul piano politico e istituzionale) del Presidente che di quel partito è diretta espressione.
Il sistema maggioritario, l’elezione diretta e la regola del simul stabunt aut simul cadent blindano il quadro politico e non accadrà in Sardegna quel che rischia di accadere a Roma, dove su una questione di importanza non capitale, ma di forte significato simbolico, potrebbe giocarsi l’esistenza del Governo.
Non che anche su quel terreno ci sia da aspettarsi quello che molti si aspettano abbastanza ingiustificatamente, ossia un capovolgimento parlamentare delle alleanze.
Zingaretti è da questo punto di vista ripartito da dove Renzi, fra marzo e giugno dello scorso anno, aveva inchiodato il PD.
La posizione sulla TAV conferma un orizzonte del centrosinistra italiano più vicino alle istanze del centrodestra che a quelle del M5S.
E il M5S più che la Lega resta l’avversario strutturale, per motivi di competizione direi sullo spazio fisico del consenso, persino indipendentemente da programmi e valori.
Il fatto è tuttavia che, nonostante lo scontro interno alla maggioranza governativa, permane, nella stessa inquietudine dell’elettorato di riferimento, che diversi osservatori riferiscono rivolta al destino di provvedimenti come il reddito di cittadinanza e il nuovo istituto pensionistico anticipato, la convinzione che la prosecuzione dell’attuale formula di governo sia largamente preferibile al ritorno al governo in qualunque forma del PD e del suo sistema satellitare, per non parlare di un eventuale nuovo governo tecnico, il cui avvento suonerebbe come il rintocco di una campana funebre.
A ben vedere dal referendum del dicembre 2016 (mi costa ammetterlo, ma l’onestà intellettuale lo impone), alla successiva serie (per dir la verità anticipata fin dal 2014 dalle tornate amministrative), delle elezioni politiche e delle elezioni regionali abruzzesi e sarde, il segno resta inequivocabile.
Questo centrosinistra italiano e quello sardo, la stragrande maggioranza degli elettori non li considera capaci di riformarsi nè di dare risposta ai problemi anzitutto sociali che gravano sul Paese.
Le elezioni sarde da questo punto di vista son state drastiche: nessun travestimento o imbellettamento ha deviato il senso comune prevalente.
Può non piacere a molti, ma ancora oggi prevale il sollievo e il senso del pericolo scampato.
Poi, ovviamente, verrà il tempo della presa di contatto con la nuova realtà e non è detto che essa sarà migliore.
La conoscenza diretta del milieu di personale che la destra ha costantemente messo in circolazione nelle esperienze di governo della Regione, soprattutto, non induce ad alcun ottimismo.
Però nemmeno questo può darsi pregiudizialmente per scontato. Ai più non parranno sensibilmente peggiori dei loro avversari “ufficiali”.
In una simile prospettiva non è facile entrare nei panni di chi attivamente si chiede “che fare?”.
Penso che su molti temi (ambiente -urbanistica in senso stretto, credo, meno- diritti sociali, forse fra questi anche sanità, se non si resterà frastornati dalla nuova girandola della riforma annunziata della riforma della Giunta Pigliaru, vertenze economiche e occupazionali, temi civili generali), la società organizzata, i movimenti e l’opinione pubblica, come al solito, anche nell’Isola faranno di necessità virtù, assumendo le proprie iniziative e manifestando il proprio peso autonomamente.
Sul terreno dei soggetti politici, al netto dell’inevitabile influenza che continueranno ad avere sulla Sardegna le dinamiche del quadro politico centrale e le evoluzioni dei partiti di matrice italiana, resta il tempo di un quinquennio libero da incombenze elettorali ordinarie, per riflettere sull’attualità, sull’utilità e sulla praticabilità della costruzione di una forma della politica democratica organizzata specificamente sarda.
Ma la condizione preliminare non è nemmeno, ancora, il superamento volontaristico delle sigle (fatte salve alcune personalità che le animano, tanto vivaci e direi ancora indispensabili, quanto controverse e fra loro purtroppo in perenne competizione, le sigle non rappresentano quasi nulla, se si esclude il PSd’Az, che tuttavia dobbiamo rassegnarci a vedere assorbito per un quinquennio dai problemi che gli ha consegnato il risultato delle elezioni), quanto la capacità di un mondo più ampio, interessato a rivitalizzare la questione sarda nella sua dimensione contemporanea, di rimettersi tutto in discussione e di prospettare aperture, alleanze, innovazioni culturali e politiche suggestive, mobilitanti, concrete.
Non c’è fretta, però ci vogliono volontà, studio, buone pratiche, obiettivi corrispondenti a reali bisogni della società sarda contemporanea, gusto per sfide non scontate.
Chiudo con una franca precisazione: quanto ho scritto mi proviene esclusivamente dalla logica razionale e, soprattutto nell’ultima parte, non esprime alcuna volontà di ingresso in dinamiche politiche altrui nè intende inoltrarsi in previsioni pregiudizialmente pessimiste o volontaristicamente ottimiste.
Veda, chi può e chi vuole, cosa fare.

2 commenti

  • 1 Aladin
    11 Marzo 2019 - 09:01

    Anche su Aladinews: http://www.aladinpensiero.it/?p=94384

  • 2 Gianfranco Sabattini
    11 Marzo 2019 - 17:19

    A che serve, a sconfitta avvenuta, porsi il fatidico interrogativi “Che fare?” Il superamento dell’attuale congiuntura elettorale non può ridursi a riflettere unicamente sulle “mosse” più opportune da compiere per ”battere” l’attuale colazione, senza il supporto di una qualche riflessione concernente ciò che è accaduto alla Sardegna negli ultimi settant’anni; né è sufficiente, da parte delle forze alternative a quelle vincenti, pensare di poter rimediare alla sconfitta elettorale e allo stato sociale ed economico attuale nel quale versa la Sardegna con l’idea di contrapporre alla “secessione finanziaria” delle regioni più ricche del Nord dell’Italia l’estensione di un’identica revisione, circa l’autonomia finanziaria, a tutte le regioni.
    Le reazioni emotive alla sconfitta elettorale sono poco produttive se non sono fondate su un’attenta considerazione dei mali che affliggono attualmente l’Isola; mali che non potranno essere rimossi sulla base di una semplice revisione dell’autonomia regionale in materia finanziaria. Un’efficace opposizione nei confronti delle forze che governeranno la Sardegna nei prossimi anni presuppone la predisposizione di una critica esaustiva e coerente sullo stato sociale ed economico nel quale possa identificarsi la maggioranza dei sardi; essa non dovrà limitarsi ad indicare le “mosse” sulle alleanze più opportune o sulla scelta del candidato che meglio potrà consentire di sconfiggere le forze oggi vincenti; al contrario, la critica del disagio dell’Isola dovrà ricordare all’elettorato, oltre che i motivi per cui la Sardegna si trova a vivere nella condizioni attuali, anche l’indicazione di ciò su cui i sardi devono essere chiamati per mobilitarli ai fini del perseguimento di un futuro della regione migliore dello stato presente. E’ solo in questo modo che si potrà pensare di poter prefigurare una possibile alternativa politica alla coalizione di forze oggi vincente. Si tratta di un impegno che non può essere assolto sulla base di “contromosse elettorali” immediate; esso richiede un’azione più riflessiva, che risulti coerente con un’analisi retrospettiva delle situazione sociale ed economica dell’Isola, ma anche con il perseguimento degli obiettivi che si vorranno proporre far condividere attraverso il dibattito e il confronto delle idee.

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