Fra strumentalizzazione politica dei fatti di Bibbiano e d.l. Pillon sugli affidi, a rischio vent’anni e più di evoluzione laica del Paese. E soprattutto a rischio bambini e minori.

27 Luglio 2019
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Tonino Dessì

 

La strumentalizzazione politica dei fatti penali oggetto dell’indagine della Procura di Reggio Emilia rischia di far arretrare ogni consapevolezza dell’intero processo -tuttora incompiuto e incompleto- di adeguamento dell’ordinamento e dei servizi finalizzati alla tutela civile minorile.
Sotto quella strumentazione sta riemergendo l’iceberg di una messa in discussione dei fondamenti della legge n. 149 del 2001, nota, fra i suoi contenuti principali, per aver disposto la chiusura entro il 2006 dei tristemente ricordati “istituti minorili”.
Il sistema di deistituzionalizzazione (più concretamente: di de-segregazione) che ne è scaturito e che prevede la promozione di “case famiglia” e il rafforzamento dell’”affido”, è oggi sotto attacco da ambienti che lo descrivono come addirittura ispirato a una politica di delegittimazione della “famiglia naturale” e di destrutturazione dei ruoli genitoriali, per di più progressivamente inquinato dalla fantomatica “teoria gender” nonché dal riconoscimento dei diritti rivendicati dai movimenti femministi e LGBT.
Non solo ambienti della destra, ma anche elementi dell’ex sinistra ideologica passati armi e bagagli nella forma più reazionaria sotto le insegne dell’attuale maggioranza gialloverde, nell’imputare al PD la responsabilità del sistema contestato, intendono in realtà mettere in discussione, per un convergente bigottismo retrogrado, la laicizzazione intervenuta nel Paese a seguito di importanti riforme civili e sociali, che certamente, almeno tenendo conto delle date, non sono, nè la laicizzazione nè le riforme, nate per merito di un partito che ai tempi neppure esisteva.
Si omette di considerare che proprio il sistema prefigurato dalla riforma è rimasto largamente inattuato per molte ragioni, non ultima appunto la resistenza alle linee fondamentali di quella riforma, connesse alla capacità dell’ambiente sociale complessivo e dei servizi pubblici, in particolare, di promuovere una crescita individuale adeguata e sostenuta collettivamente dei minori in difficoltà.
In tal modo si evita, soprattutto, di affrontare un aspetto di cultura giuridica fondamentale del quale, invece, si può certamente dire che tuttora il sistema difetti, ma per un difetto strutturale non solo italiano.
Nel tentativo di ripristinare modelli arretrati di relazioni famigliari e sociali, quelli dell’”E allora Bibbiano”, non meno dei sostenitori del d.l. Pillon, dimenticano come fosse strutturato e da chi fosse gestito il sistema di assistenza ai minori privi di famiglia o in difficoltà famigliari prima del 2001-2006.
Nello stesso tempo omettono di prendere in considerazione il fatto che il nuovo sistema non è stato affatto attuato e completato secondo gli indirizzi di legge.
Ma il problema più rilevante è che tanto le critiche dei detrattori e dei demonizzatori, quanto le deviazioni e gli abusi, veri e presunti, di cui parlano le cronache e che la politica enfatizza, hanno una base comune.
Questa base è un profondo, strutturale deficit di cultura e di pratica giuridica.
In tutti i Paesi civilmente evoluti del mondo esiste una funzione pubblica, riservata allo Stato, preordinata a soccorrere il minore quando la sua famiglia naturale non esista, o risulti oggettivamente destrutturata, o cessi di esistere.
La tutela statale dei minori, per surrogare o per sopravanzare anche la potestà genitoriale, dovrebbe basarsi sul fatto che il minore è una “persona umana” fornita originariamente e autonomamente di tutti i diritti costituzionali.
Sono questi diritti “inviolabili”, che oggi (non solo in Italia: è un problema dal quale nessun Paese anche occidentale può dirsi del tutto immune) non sono adeguatamente garantiti e che dovrebbero invece esser assicurati in ogni istante delle procedure che riguardino i minori, comprese quelle terapeutiche e socio-assistenziali, non tanto le prerogative di una genitorialità astratta nè quelle della spesso drammaticamente inadeguata famiglia “concreta”.
È proprio il difetto di questa consapevolezza giuridica (e umana) che rende disfunzionale in particolare l’operato di molti servizi sociali territoriali locali, non rispettose e ingiustificatamente invasive le metodologie adottate da molti operatori professionali, assistenti sociali, psicologi, psichiatri e inadeguato l’esercizio della funzione da parte di molti magistrati minorili “non togati”, cosa che richiederebbe una riforma incisiva, questa sì, ancora mancante,della giustizia “speciale” minorile in campo civile.
Se poi vogliamo aggiungerci sia un recepimento esclusivamente amministrativo-burocratico delle leggi, sia un indirizzo culturale e politico condizionato da logiche di privatizzazione economico-finanziaria dei servizi pubblici, sia una cinica concezione mercantile delle funzioni sociali, sia infine una vocazione “nazionale” all’illegalità criminale, tutt’altro che scoraggiata dagli esempi politici prevalenti, il contesto certamente risulta inquietante.
Ma illudersi di restituire la gestione a una insussistente famigliarità naturale è semplicemente chiudere gli occhi di fronte alla realtà, per non dire della miope ferocia reazionaria cui non pochi sembrano ispirarsi.
A me pare che, volendolo fare, quelli che ho evidenziato dovrebbero essere i temi da riprendere e da discutere.

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