Questione meridionale, una soluzione mancata

18 Ottobre 2019
1 Commento


Gianfranco Sabattini

La recente pubblicazione di “Nazione, sviluppo economico e questione meridionale”, dello storico Guido Pescosolido, riapre un tema che è sempre stato al centro del dibattito, iniziato subito dopo il 1861, circa l’impatto della formazione dello Stato italiano sullo sviluppo economico delle aree corrispondenti agli Stati pre-unitari. Il lavoro di Pescosolido ruota, come egli precisa nell’Introduzione. “intorno ai tre grandi temi indicati nel titolo del libro: la nascita dell’Italia a nazione moderna con il Risorgimento; lo sviluppo economico dello Stato unitario; la questione meridionale, che continua ad essere ancora oggi il maggior fattore di incompiutezza e debolezza economica, sociale e civile della nostra storia nazionale”. Si tratta di tre temi tra loro strettamente interconnessi, con il primo a “fare da piattaforma teorica e cornice storica di fondo” agli altri due.
Dopo aver premesso che sul tema della nascita dell’Italia come Nazione moderna si è ormai consolidata la riflessione degli storici italiani del Risorgimento sulla “realtà storica della Nazione moderna”, Pescosolido afferma come sia ormai prevalente la definizione di Nazione moderna, elaborata nel corso degli anni Ottanta-Novanta del XIX secolo e fondata sui valori dell’Illuminismo, recepiti nell’organizzazione politica delineata dalla Rivoluzione francese.
Si tratta di un nuovo concetto di Nazione, intesa “come una comunità di individui che abbiano la volontà di condividere un comune destino civile e politico in uno Stato sovrano, aperto e inclusivo, che tenda a riconoscere a tutti la piena cittadinanza di uno Stato di diritto, al limite a prescindere dall’omogeneità religiosa, linguistica, culturale o di altro genere”. La volontà di creare uno Stato con queste caratteristiche era nella coscienza dei protagonisti del nostro Risorgimento, per i quali la realizzazione dello Stato unitario doveva essere l’espressione organizzativa della Nazione italiana moderna, le cui finalità fossero la libertà, la sicurezza e il benessere della nuova comunità nazionale, e non quelle di specifici gruppi privilegiati.
La nazione italiana moderna così concepita includeva, in linea di principio, tutti i cittadini nell’esercizio dei pubblici poteri, mentre gli Stati pre-unitari e pre-rivoluzionari, sebbene fossero definiti “Nazioni”, erano in realtà delle Nazione di aristocratici; una distinzione, questa, alla quale – ricorda Pescosolido – sono stati ricondotti (per il prevalente contributo dello storico Rosario Romeo) “il ‘caso’ italiano e il rapporto tra Risorgimento, storia nazionale italiana e storia delle ‘Nazioni’ pre-unitarie”.
E’ in questa prospettiva che deve essere inquadrata la nascita dell’Italia come Nazione moderna, con la fusione di tutti gli antichi Stati assolutistici della Penisola, “nessuno dei quali era riuscito a divenire Nazione moderna nel senso post-illuministico, rivoluzionario e mazziniano del termine”; e a questa prospettiva deve essere ricondotto il dibattito riguardante l’impatto dell’unificazione degli Stati pre-unitari sul processo di sviluppo economico del nuovo Stato italiano.
Tale prospettiva ha consentito – a parere di Pescosolido – di formulare un giudizio sul Risorgimento fissato da una storiografia liberale sulla quale di fatto concordano anche “settori autorevoli di storiografia di sinistra, anche ex-marxista”, che può essere sintetizzato nelle seguenti conclusioni: il Risorgimento si è svolto in virtù di una spinta di natura ideologico-politica di un movimento nazionale che, nonostante i limiti di partecipazione delle masse popolari, si è rivelato dotato di una notevole capacità realizzatrice; il nuovo Stato nazionale ha potuto disporre di una classe politica più avanzata, sulla strada della modernizzazione, di quanto lo fosse la maggior parte della popolazione; per questo motivo, la vita politica, economica e civile dello Stato unitario è stata caratterizzata da notevoli difficoltà e contraddizioni; resta tuttavia incontestabile “lo stacco netto di crescita che il Risorgimento e l’Italia liberale [hanno realizzato] rispetto alla realtà degli antichi Stati pre-unitari”.
Le storie economiche dell’Italia unitaria sono “molteplici e ben note”; quasi tutte – afferma Pescosolido – “ruotano intorno alla problematica del ruolo giocato dallo Stato nello sviluppo economico nazionale post-unitario”; un ruolo che è risultato ricco di implicazioni soprattutto rispetto a “due problematiche“, sulle quali si è a lungo discusso e ancora oggi si continua ancora oggi a discutere: la prima problematica si riferisce al tema dello sviluppo economico italiano tra l’Unità e la Grande Guerra, che ha permesso al nuovo Stato la “rincorsa ai Paesi più ricchi d’Europa”; la seconda problematica riguarda l’alternanza tra liberismo e protezionismo nella formulazione ed attuazione della politica economica italiana.
Con riferimento alla prima problematica, le riflessioni di Emilio Sereni sul “Capitalismo nelle campagne” e quelle di Antonio Gramsci sul “Risorgimento” avevano “impresso – a parere di Pescosolido - alla storiografia italiana del secondo dopoguerra una svolta di fondamentale importanza”. Gramsci, in particolare, aveva sostenuto che il Risorgimento “aveva rappresentato una grande occasione storica per la democrazia italiana, che avrebbe potuto allora realizzare la sua rivoluzione attuando in Italia una strategia politica ispirata a quella dei giacobini francesi che nella Grande rivoluzione avevano coinvolto i contadini, assegnando a essi le terre confiscate ai nobili e ai grandi proprietari”. La forza politica che durante il Risorgimento avrebbe potuto compiere questa operazione di trasformazione sociale era, secondo Gramsci il Partito d’azione mazziniano, l’unico in grado di evitare i risultati della politica liberal-conservatrice di Cavour e di fare del nuovo Stato italiano “una vera democrazia socialmente più giusta, basata su un’economia capitalistica che la rivoluzione agraria avrebbe reso più avanzata e dinamica di quella storicamente avutasi”.
La storiografia liberale del dopoguerra però aveva liquidato la tesi gramsciana, in quanto ritenuta “un’operazione metastorica con la quale si giudicava il Risorgimento italiano alla luce di un astratto ideale politico e istituzionale, e finalizzata strumentalmente alle esigenze di lotta del Partito comunista”. La tesi della storiografia liberale non ha avuto modo di legittimarsi nella cultura economico-politica dell’Italia del dopoguerra, in quanto è stata largamente condivisa la validità politica della prospettiva di un’”alleanza tra operai e contadini”, percepita – sostiene Pescosolido - come il “rimedio più efficace per fare ricuperare alla storia del nostro Paese tutto il terreno perduto” sulla strada dello sviluppo politico, istituzionale, economico e sociale, “a causa del peccato d’origine della mancata rivoluzione agraria nel Risorgimento”.
Chi si è opposto alla tesi di Gramsci sul Risorgimento è stato lo storico liberale Rosario Romeo, il quale, nella sua breve vita di ricercatore (è nato nel 1924 ed è morto nel 1987, all’età di 53 anni), sin dal 1956, oltre a contestare l’idea degli effetti positivi che la rivoluzione agraria avrebbe potuto avere sullo sviluppo capitalistico italiano dopo l’Unità, ha anche spostato il focus del dibattito “sull’analisi dello sviluppo economico post-unitario” e sul ruolo che riguardo ad esso ha svolto la politica economica dello Stato liberale (alternativamente ispirata ai principi del liberalismo ed a quelli del protezionismo). Sulla scorta dei suoi studi, Romeo ha sostenuto che nelle aree più progredite del Centro-Nord del nuovo Stato italiano, dove il capitalismo nelle campagne era avanzato ben prima che fosse conseguita l’Unità, la creazione di piccole proprietà contadine, contritamente a quanto sosteneva Gramsci, anziché accelerare la formazione del mercato, l’aveva “invece bloccata e fatta regredire”, a causa del mantenimento di alti tassi di autoconsumo nella campagne” e della mancata “liberazione di manodopera per l’industria”.
Per lo spostamento del focus del dibattito sull’analisi dello sviluppo economico post-unitario, Romeo si è avvalso di concetti logico-esplicativi della teoria dello sviluppo economico che, soprattutto in vista dell’allargamento del mercato mondiale attraverso il superamento dell’arretratezza di molti Paesi, si era affermata nell’immediato dopo-guerra come disciplina autonoma nell’ambito degli studi economici; Romeo, infatti, nell’approfondire la propria interpretazione dello sviluppo post-unitario dell’economia italiana si è avvalso del concetto di “accumulazione originaria o primitiva del capitale”, in base al quale ha sostenuto che, all’inizio della sua industrializzazione, l’Italia non poteva avere come obiettivo prioritario quello di espandere la domanda di beni di consumo, “bensì quello di realizzare un processo di accumulazione di capitale da impiegare nella creazione dei requisiti infrastrutturali e strutturali indispensabili alla nascita di un moderno apparato industriale”.
A tal fine, non ci si “poteva affidare allo spontaneismo”, sulla base del quale era avvenuta la prima industrializzazione dei Paesi europei economicamente più avanzati, ma – secondo le parole di Pescosolido – “occorreva forzare i tempi del processo di accumulazione, avvalendosi di agenti surrogatori, i più importanti e diffusi dei quali erano, secondo la teorizzazione e la concreta verifica storica”, lo Stato, le banche e il capitale straniero. A parere di Romeo – prosegue Pescosolido – “nell’Italia post-unitaria si era avuto un concorso di tutti e tre quei fattori, secondo un ordine gerarchico che vedeva tuttavia lo Stato nettamente al primo posto”. L’industrializzazione, per quanto limitata alle regioni del Nord (che costituiranno il famoso “triangolo industriale”), ha avuto l’effetto di rompere definitivamente l’idea che essa potesse avvenire sulla base di un modello di sviluppo agricolo-commerciale, come conseguenza di una rivoluzione agraria. Per Romeo, è stato grazie a questa prima fase di industrializzazione avvenuta nei primi decenni post-unitari, se successivamente, in età giolittiana, il processo avviato ha potuto espandersi e consolidarsi.
In conclusione, sostiene Pescosolido, le tesi formulate da Rosario Romeo, nel corso del dibattito da lui avviato sulle origini del processo di industrializzazione mediante il quale la Nazione italiana aveva realizzato il proprio processo di modernizzazione, hanno trovato sul piano dell’esperienza “più conferme che smentite”, sebbene quel processo non sia stato indolore per l’intera comunità nazionale e soprattutto per le regioni del Mezzogiorno, chiamate ad accollarsi i maggiori sacrifici; sacrifici che lo stesso ha giustificato inserendoli “nel quadro dei superiori interessi nazionali”, aggiungendo, a titolo consolatorio per le comunità meridionali, che potevano essere accettati “solo a patto che dallo sviluppo capitalistico realizzato […] prendesse il via anche il riscatto definitivo del Mezzogiorno, senza il quale lo stesso sviluppo capitalistico in corso avrebbe finito per incepparsi”.
E’ stata questa, sottolinea Pescosolido, una chiusura delle riflessioni di Romeo in chiave meridionalistica, “in fiducioso supporto politico alla strategia dell’intervento straordinario”, iniziato con l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno e protrattosi attraverso leggi speciali sino all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso.
Si è trattato, però, di una fiducia mal riposta, sebbene il ruolo dello Stato sia risultato positivo nel favorire, dopo la raggiunta Unità del Paese, l’accumulazione originaria che ha poi reso possibile il primo processo di industrializzazione; dopo la fine del secondo conflitto mondiale, l’intervento straordinario a favore del Mezzogiorno (complice la permanenza di residui arcaici nelle regioni meridionali che avevano fatto parte di “Nazioni” pre-moderne) è sempre risultato caratterizzato dall’alternanza di due strategie tra loro contraddittorie: da un lato, quella di formulare e attuare politiche d’intervento che avevano sempre come unico obiettivo il superamento della staticità delle sole condizioni economiche, prescindendo dalla presenza nelle regioni meridionali di un soggetto (pubblico o privato) in grado di “gestirne” gli esiti; dall’altro lato, la strategia con cui perseguire la creazione, nelle stesse regioni, di un soggetto in grado, con la propria azione, di “rompere” la staticità delle condizioni di arretratezza, prescindendo però dalla verifica della presenza in esse delle necessarie capacità richieste per il superamento di quelle condizioni statiche.
Questa contraddizione ha “inchiodato” il Mezzogiorno, costringendolo a conservarsi nello stato di “vittima sacrificale”, “nel quadro dei superiori interessi nazionali”.

1 commento

Lascia un commento