Quali rimedi contro le spinte antidemocratiche dei populisti?

28 Febbraio 2020
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Gianfranco Sabattini

Sino alla metà del decennio scorso, il problema del populismo italiano non era oggetto di molta attenzione, mentre oggi, secondo Nadia Urbinati (“Il popolo. Come il populismo trasforma la democrazia”), il tema del populismo in generale è divenuto il centro dei dibattito sulla capacità di tenuta della democrazia costituzionale. Nei Paesi occidentali – afferma la politologa – “in forme e intensità diverse, il populismo è stabilmente di casa o perché governa o perché aspira a governare. Lo scivolamento della democrazia dei partiti verso forme plebiscitarie e personalistiche, congiunto alla gestione della comunicazione e dell’informazione da parte dei cittadini stessi per mezzo di Internet, sono i fenomeni epocali che hanno contribuito a cambiare la fisionomia delle nostre società e della politica”.
Studi circostanziati, tuttavia, hanno posto in rilievo come il populismo non sia un problema riguardante i Paesi appartenenti alla periferia del mondo, ma solo intrinseco alle società democratiche: inoltre, quando riesce ad accedere al governo nei Paesi in cui si è affermato sul piano elettorale, esso dà origine a “forme radicali di maggioritarismo”, maltolleranti la struttura propria dello Stato di diritto costituzionale (divisione dei poteri, indipendenza del potere giudiziario e rispetto dei diritti fondamentali), manifestando la tendenza a considerare l’osservanza della legge come un ostacolo al funzionamento della vera democrazia. Il maggioritarsimo populista tende così, per Urbinati, a farsi “forza costituente”, per modificare “la Costituzione del Paese con il proposito dii annullare la distanza tra sovranità e governo”.
Poiché il populismo non è un’ideologia, come quella che sottende, ad esempio, il regime democratico, ma una forma di rappresentanza politica operante all’interno di tale regime, esso (il populismo) diventa difficile da contrastare, soprattutto quando la politica è fatta con la comunicazione con l’elettorato grazie a mezzi di informazione (Internet) che consentono di scavalcare le istituzioni rappresentative della democrazia.
In questo modo, il populismo si presenta, non come un ostacolo al funzionamento della democrazia formale, ma “come lo schema dell’azione politica democratica interessata alla costruzione dei soggetti collettivi, in particolare alla costruzione del soggetto collettivo artificiali per antonomasia, il popolo”; esso (il populismo) diventa così una forma dell’agire democratico, finalizzato ad unire rivendicazioni sociali diverse, legittimandosi come “attore narrante che dà il proprio nome al ‘vero’ popolo”. Nella concezione del populismo, il popolo costituisce una categoria politica più comprensiva del concetto di “classe” e più elastica di quello di “nazione”, tesa all’individuazione del nemico, per “delimitare il campo politico tra chi è e chi non è ‘vero’ popolo”. Il populismo, perciò, si presenta a tutti gli effetti, come una forma di democrazia maggioritaria che, ripudiando il costituzionalismo classico e avanzando la pretesa di essere una forma di democrazia alternativa a quella dei partiti, accusa questi ultimi (dopo la caduta dei regimi totalitari e l’affermazione del principio pluralista) di non essersi fatti “partito del popolo”.
Urbinati, non rifiutando questa concettualizzazione, vuole cerca di capire che “tipo di democrazia è la democrazia populista”; considerando come quest’ultima si sia diffusa rapidamente in gran parte dei Paesi occidentali di antica tradizione democratica, la docente di Teoria politica è del parere che non sia azzardato pensare che il populismo sia un orizzonte possibile della democrazia costituzionale. Nonostante nasca in un clima sociale e politico fortemente conflittuale, la forma di rappresentanza politica del populismo aspira a superare le divisioni partigiane del corpo sociale, appropriandosi del “mito di una democrazia consensuale e dirigista” incarnato nella figura di un leader, il quale, cementando l’unione col “suo” popolo, può sostituire i partiti, sfiduciando la partitocrazia; una sfiducia che il populismo non crea, ma che riesce a sfruttare abilmente sul piano elettorale. Ci si può fidare del populismo? La risposta di Urbinati è negativa; ciò non toglie, tuttavia, che esso debba essere studiato analiticamente, senza rifiutarlo aprioristicamente su basi polemiche.
Una riflessione obiettiva sull’origine del populismo non può fare a meno di considerare che la società di mercato e la democrazia dei partiti hanno contribuito alla ricostruzione economica, sociale e politica dei Paesi occidentali distrutti dalla Seconda guerra mondiale. Nel tempo, però, il modello di organizzazione sociale fondato sul libero mercato e sul regime democratico ha “eroso la propria credibilità”, a causa – sostiene Urbinati – della comparsa di due fenomeni negativi comuni a tutti i Paesi nei quali il populismo si è affermato; l’aumento della la crescente disuguaglianza distributiva a vantaggio di una piccola minoranza e la crescente autoreferenzialità degli eletti hanno sacrificato le aspettative e la soddisfazione dei bisogni della popolazione, creando le premesse perché il populismo avesse successo.
Ma le frustrazioni sociali, nascenti dalla progressiva affermazione dei due fenomeni negativi cui si è fatto cenno non giustificano, secondo Urinati, la scorciatoia politico-istituzionale proposta dal populismo; conseguentemente, anche se il populismo “è un fenomeno democratico” (perché nasce e può affermarsi solo nelle democrazie), non “necessariamente è amico della democrazia”. Poiché il populismo è “specchio” della democrazia costituzionale e rappresentativa nata dopo il secondo conflitto mondiale, è proprio dalla considerazione dell’impatto dei due fenomeni negativi della disuguaglianza distributiva e dell’autoreferenzialità che occorre partire per contrastare le possibili alterazioni dell’ordine democratico costituzionale. Pertanto, l’auspicio di Urbinati è che le scienze sociali approfondiscano le ragioni per cui quei due fenomeni negativi abbiano potuto consolidarsi, senza che ad essi siano state contrapposte efficaci politiche di contrasto. Per salvaguardare la democrazia costituzionale, si impone perciò la necessità di individuare appropriate soluzione democratiche a quei problemi, lasciando cadere gli atteggiamenti polemici sinora prevalsi, rivelatisi solo favorevoli alla continua crescita elettorale del populismo.
Sebbene la crescita del populismo sia servita sinora a risolversi in una critica radicale contro l’affermarsi di un ristretto gruppo di oligarchi e il diffondersi dell’utoreferenzialità degli eletti, Urbinati non affronta (perché ritenute estranee alle sue competenze) le cause economiche e sociali che hanno dato origine al populismo, limitandosi ad analizzare, dal punto di vista a lei più congeniale, il successo del movimento come forza di governo; ciò al fine di evidenziare, da un lato, gli effetti che esso “produce sulla democrazia costituzionale” e, dall’altro, studiare “come il populismo trasforma la democrazia”. Urbinati ritiene che ciò debba essere la “premessa di ogni riflessione che voglia comprendere le debolezze insite nella democrazia dei partiti”; condizione, quest’ultima, che la studiosa considera preliminare per rispondere con efficacia alla “minaccia populista”.
Utilizzando le diverse categorie con cui caratterizzare il populismo, quali la “faziosità” (che nasce da una concezione proprietaria dei diritti e delle istituzioni), il “maggioritarismo” (che falsa il principio di maggioranza, identificandolo con una maggioranza), il “leaderismo” (che considera la rappresentanza politica come incorporazione del popolo nel leader) e l’”antipartitismo” (inteso come forza trainante dell’olismo popolarista), Urbinati considera il populismo come il risultato dell’interazione di tali categorie; ovvero, come un movimento che, una volta al potere, si impegna ad ubbidire all’autorità quasi assoluta del pubblico nell’affrontare una campagna elettorale permanente, che il suo leader e la sua maggioranza devono condurre per dimostrare che non intendono rappresentare un nuovo establishment, ma un’alternativa a quelli sinora prevalsi.
Attenersi alla volontà del pubblico è imprescindibile, poiché la fede nel leader è l’unica garanzia per conservare l’alternativa all’establishment pluralista, mentre Internet è lo strumento “che può sostituire l’organizzazione di partito nella costruzione del potere populista. Poiché il populismo non è un regime sorretto da un’ideologia specifica ed univoca, ma una trasformazione che si produce dentro il regime della democrazia, esso tende ad essere molto instabile nel perseguimento dei propri obiettivi, esponendosi al rischio di “diventare una maggioranza come un’altra, o tracimare in dittatura”.
La possibile evoluzione del populismo in dittatura del populismo risulta caratterizzata, secondo Urbinati, da quattro diverse tendenze. Secondo la prima, poiché il populismo rifiuta la pluralità dei partiti (accettando in sua vece il dualismo tra il popolo e l’establishment espresso dai partiti tradizionali), esso tende a ridurre l’antagonismo politico “a dualismo tra i molti e l’establishment”, rifiutando in tal modo “le procedure utilizzate dalla democrazia rappresentativa. La seconda tendenza, è quella di utilizzare “le elezioni come plebiscito”, atto a rivelare il vero popolo, dissociandolo da ogni “pretesa di imparzialità e mettendo in scena l’identificazione di una parte (il popolo vero) con il legittimo sovrano (pars pro parte)”. Quando riesce nell’intento - osserva Urbinati – il costituzionalismo populista costituzionalizza solo una specifica maggioranza, eliminando ogni distanza tra legge costituzionale e legge ordinaria, la cui conservazione costituisce il “perno delle democrazia costituzionale”. La terza tendenza del populismo si sostanzia nel fatto che la rappresentanza diretta, sulla quale il populismo fonda l’unità del leader col popolo, tende a collocare nell’audience “la fonte più autorevole di legittimità, indebolendo il ruolo degli intermediari politici”. Infine, con la quarta tendenza, il populismo “interpreta la democrazia come maggioritarismo radicale”, col quale conseguire una “vittoria di una visione irrealista e relativistica della politica come costruzione ed esercizio del potere che ha nella vittoria la sua legittimità”.
Queste quattro tendenze sono presenti all’interno del regime democratico quando in esso opera e si rafforza elettoralmente un movimento populista, com’è accaduto nei decenni scorsi all’interno delle democrazie costituzionali e partitiche che hanno governato la ricostruzione politica e sociale di gran parte delle società occidentali, dopo la fine della Seconda guerra mondiale; ciò perché le istituzioni nelle quali si sono incorporate le istituzioni democratiche hanno fallito nel mantenere quanto promettevano, e cioè che l’istituto della rappresentanza avrebbe reso la democrazia stabile ed efficace nel dare voce a tutte le istanze dei cittadini, sottoponendo “permanetemente gli eletti al controllo degli elettori, grazie ai partiti e al pluralismo delle fonti di informazione”. Il populismo ha tratto vantaggio da questi fallimenti e dal generale scontento che questi hanno concorso a diffondere; ciò non significa, però, secondo Urbinati, che le tendenze con le quali il populismo snatura la democrazia costituzionale non possano esse contrastate.
Partendo dalla consapevolezza che la democrazia è una costruzione storica, non ci si deve sorprendere dei suoi possibili fallimenti; anzi, la presa d’atto della sua finitezza, deve fungere, per Urbinati, da antidoto contro la presunzione che essa sia il modello chiuso di un regime politico che non ammette ulteriori perfezionamento e arricchimenti.
Urbinati conclude la sua analisi del populismo, affermando che la critica di quest’ultimo alla democrazia costituzionale ed al sistema dei partiti è un valido indicatore del “malfunzionamento del governo costituzionale e dell’inadeguatezza delle istituzioni rappresentative”. Per fronteggiare le tendenze eversive della democrazia connaturate all’azione populista e finalizzate a rimuovere i fallimenti delle istituzioni democratiche, i sostenitori di queste ultime (i democratici) devono intervenire “nel merito delle argomentazioni costituzionali e politiche del populismo, invece di demonizzarle, e rivedere alcune fondamentali regole del gioco in modo da restituire potere decisionale ai cittadini e permettere loro di esercitare un controllo più stringente sui loro rappresentanti”. A tal fine, continua Urbinati, è necessario riconfigurare il ruolo dei partiti nella società, per garantire trasparenza alla loro azione e al loro modo di finanziarsi; è infine necessario “rivederne le strutture in modo da renderli capaci di interpretare e rappresentare le rivendicazioni dei loro iscritti”.
Ma non basta riconfigurare il ruolo dei partiti, le modalità del loro finanziamento e rivederne le strutture, per migliorarne la capacità di recepire le rivendicazioni popolari; in considerazione del fatto che le Costituzioni (come Urbinati sostiene) sono dei prodotti storici, occorre anche cambiare ciò che esse promettono, senza la sicurezza che alla promesse fatte l’azione dei partiti abbia la possibilità di dare risposte certe. Si tratta di un tema, quest’ultimo, che Urbinati volutamente non tratta. perché estraneo alle sue competenze; esso, però, è il punto centrale intorno al quale gravitano le criticità dei moderni sistemi sociali democratici, in tema di diritto al lavoro e di distribuzione del prodotto sociale. Rispetto a tali criticità, le Costituzioni nate dopo il secondo conflitto mondiale risultano ampiamente superate, essendo ormai non più adeguati alcuni dei principi fondamentali in esse contenuti, quali quelli, ad esempio, espressi nella prima sezione della Costituzione italiana.

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