Noi dobbiamo lavarci le mani, non lavarcene le mani

13 Marzo 2020
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Giulio Lobina

In ginocchio stanno i siriani. Che hanno perso la casa, i figli, i genitori, i nonni, i sogni, la terra. Non noi. Noi abbiamo una casa.
Dobbiamo semplicemente starci. Abbiamo una casa e un lavoro, o un reddito di cittadinanza. E, ancora mamma, babbo, fratelli, sorelle, amici, spose. Chi è fortunato.
In ginocchio sta chi per un tampone spende 1400 dollari, non noi.
In ginocchio sta chi muore di denutrizione e di morbillo, non noi.
Noi perdiamo per un periodo che finirà aperitivi e stadi. La socialità che “i social” si sono già mangiati dentro telefonini nei quali leggiamo costantemente bufale contro gli africani create dalle destre xenofobe che oggi stanno mute perché comprendono il significato della “fuga” dalle epidemie, del divieto di attracco di una Nave da crociera (non di un barcone), dello stare confinati in un territorio dove si ha paura.
Mancherà, l’andare a scuola, a teatro, in palestra, al mare, in piazza, chiesa, strada, ristorante, a passeggio…eccome se mancherà tutto questo perché siamo nati per vivere con le persone, d’ogni Paese e d’ogni colore. Senza muri. I confini noi non li vogliamo nemmeno fino al 3 aprile, immaginiamoci se potremo mai vivere in un mondo chiuso.
Siamo nati per abbracciarci e per baciare. Per camminare insieme, mano nella mano.
Oggi ci fermiamo. Tutta l’Italia si ferma. Rallenta. Ma no, non siamo in ginocchio.
In ginocchio sta chi, per la nostra ignoranza e superficialità viene contagiato e non ha anticorpi per proteggersi.
In ginocchio sta chi, non ha scelta.
Noi scegliamo ogni giorno
di non contagiare,
di non gravare sulla Sanità,
di rispettare il lavoro dei Medici e di tutti gli operatori sanitari,
delle forze di polizia,
di chiunque incessantemente collabora per preservare la vita.
Possiamo comportarci civilmente a lavoro e a casa. Perché siamo in grado di scegliere come comportarci. Perché ci laviamo le mani con acqua potabile, perché possiamo contattare il nostro medico, perché possiamo andare a lavoro con una autocertificazione o stare a casa finché è necessario per scongiurare una pandemia.
Morire “con il Coronavirus” è sempre morire. Un nonno ha un nome e un cognome, non è un “immuno-depresso”. Non esistono vite di serie B. Esistono comportamenti virtuosi che possono salvare molte vite.
Io ho ancora una nonna e no, non posso nè baciarla nè abbracciarla ora perché voglio continuare a credere che ci sarà un domani in cui potrò farlo.
Siamo sardi. E proprio noi dobbiamo essere come i pastori, che mai ho visto correre. Signori della campagna. Sanno attendere il tramonto. La pioggia. Il vento. Lenti si godono i colori e i profumi mentre tutto corre. Eppure lenti germogliano i fiori. Nove sono i mesi in cui stiamo dentro la pancia di mamma.
Siamo educati alla lentezza. Lento è il lavoro di uno scultore, di un pittore, di un chirurgo, di un maestro. Lenta è bellezza, il respiro sereno, il sospiro.
Lento il passo dei pastori che s’accontentano di poco nei racconti degli anziani vicino al fuoco, con un pezzo di pane, di formaggio e dell’acqua.
In ginocchio stanno i siriani, al confine con la Grecia. Scarcerati dalla Turchia. A piedi oltre i confini. Soli. Orfani di padri e di figli, di madri e di figlie.
Noi dobbiamo solo smettere di correre e iniziare a camminare.
In piedi e speriamo, presto, di nuovo a testa alta.

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